In scena a Napoli lo spettacolo scritto e diretto da Francesco Lagi con Anna Bellato, Francesco Colella e Leonardo Maddalena
C’è un modo tutto particolare che connota Teatrodilina nel raccontare e inscenare rapporti umani e relazioni; c’è un modo tutto particolare che, nei suoi dettagli, nelle sue sfumature, nella cura delle piccole cose, compone una poetica che potremmo definire “musiva”, per come frammenti e minuzie della quotidianità, messi in sistema e organicamente orchestrati, concorrono a disegnare quadri che, alla fine, propongono una visione d’insieme che riconduce a discorsi universali. Com’è universalmente accomunante il far parte di un consorzio umano nel quale, prima o poi, ciascuno di noi cessa di essere monade per interagire con chi ci circonda. Lo facciamo da che mondo e mondo, da quando per comunicare graffiavamo su pareti di roccia immagini stilizzate che un giorno sarebbero state derubricate come pitture rupestri, per essere, molti secoli dopo, sostituite nella loro funzione da emoticon e stickers, scambiati interagendo per via telematica.
Ricorre frequentemente, negli spettacoli di Teatrodilina, questo dedicarsi a un’indagine delicata e sottile delle dinamiche sottese alle relazioni; è cifra stilistica che non rinuncia ad un’ironia apparentemente garbata, ma che contiene al suo interno, ben dissimulata, una vena acre, propria di chi, pur senza perdere la misura, non vuole però sottrarsi dalla responsabilità di mirare al nocciolo delle questioni, provando ad andare a sbirciare quel che c’è dietro al paravento dei meno visibili meccanismi sottesi all’umano (inter)agire, e comunque lasciando costantemente aperto uno spiraglio a possibilità ulteriori mediante finali mai del tutto chiusi. E così: se ne “Le vacanze dei signori Lagonia” si raccontavano le sfumature annidate tra le pieghe della vita di due anziani coniugi che, coltivando la tenera malinconia del ricordo ed il gusto della celia condivisa, ma anche la riprovazione del battibecco e la rabbia della maledizione, viaggiavano verso la scelta definitiva di un omicidio/suicidio; se in “Gli uccelli migratori” ad essere raccontata era una corale incomunicabilità consequenziale a una incapacità di decidersi tra quel che si è e quel che si potrebbe essere; se “Il bambino dalle orecchie grandi” era un ruotare centrifugo tra ipotesi e possibilità di vita a due che si sfaldano nei frammenti di un decorso quasi amoroso; con questo “Meno di due” a prender corpo sono le possibilità al ribasso di chi sembra aver posto un po’ più giù l’asticella delle aspettative, di chi proietta su immagini filtrate da uno schermo (di un telefono, di un pc) la speranza che l’ologramma diventi figura a tutto tondo e, perché no, piaccia e conceda un’altra possibilità a vite disilluse.
E dunque, siccome viviamo l’era delle relazioni liquide, veicolate da frenesie e paturnie che facilmente si spostano dal reale al virtuale (e viceversa), fatte di stati, storie, like, cuoricini e quant’altro contribuisca a proiettare in pochi centimetri quadrati di schermo ogni personalissima storytelling, questa volta, in “Meno di due”, i protagonisti sono un uomo e una donna che, dopo essersi conosciuti (e piaciuti) virtualmente – con tutti i filtri del caso a rendere più appetibile un’estetica viziata da larvata insicurezza – hanno finalmente deciso di incontrarsi dal vivo. Un uomo e una donna di mezz’età, altrimenti detti boomer, due persone che sembrano rispecchiare interiormente il sentimento d’un giorno d’autunno in cui hanno scelto di vedersi: ce lo dice l’abbigliamento, ce lo conferma il rumore della pioggia all’esterno, e ne rafforza contezza il contorno di foglie vizze tra il giallognolo e il rossastro che circonda la scena a pianta circolare, essenziale nei suoi tre cubici sgabelli dai lati a specchio che la riempiono di poco.
Questo ‘autunno delle relazioni’ si dipana attraverso due figure malcerte e impacciate, che percepiamo non essere riuscite a trovare piena soddisfazione nella loro collocazione nel mondo, sicché hanno provato a proiettare le proprie aspettative sul rutilante guazzabuglio di possibilità offerto dal mare magnum dell’online, dove è possibile googlare per cominciare a informarsi e matchare per cominciare a piacersi. Un incontro che porta a diventare contigui mondi distanti non solo geograficamente, ma anche culturalmente: lui professore di greco, lei titolare di un’azienda di cibo per animali, differenti per formazione, abitudini e cultura, tant’è che quando vanno insieme a giocare a bowling, lui mima una scena de “Il grande Lebowski” e lei lo scambia per un porno. Si piacciono, ma nemmeno tanto, cominciano a confessarsi reciprocamente le proprie piccole imperfezioni e mentre provano a sentirsi parte di qualcosa che forse sta nascendo, condividendo la comodità delle pantofole a casa di lei, a loro due s’aggiunge – inaspettato come a volte sa essere anche il più prevedibile degli imprevisti – il terzo (in)comodo, che con il suo ingresso andrà a sparigliare la coppia in fieri e a scompaginare l’ipotesi di idillio che, faticosamente, tra imbarazzi e convenevoli, si stava sviluppando.
Tutto ciò si compone nel susseguirsi coerente e progressivo di scene ideato e diretto da Francesco Lagi, in cui i cambi avvengono a vista e vengono operati dagli attori stessi, personaggi che non hanno nome, ma che vengono caratterizzati per provenienza geografica marcando ciascuno l’inflessione della propria parlata d’origine (calabrese Francesco Colella, veneta Anna Bellato, pugliese Leonardo Maddalena), come a voler conferire un surplus di verità alla rappresentazione dei caratteri in scena.
La teatralità del tutto è rimarcata dai piccoli gesti che evocano oggetti che non ci sono (la tazzina di caffè, la bustina di zucchero di cui si finge l’apertura agitando le dita, il viaggio in macchina con due dei tre sgabelli a farsi abitacolo per la finzione), ed è arricchita da un livello recitativo decisamente alto, fatto di mimiche facciali e battute di spirito, capacità di gestire i silenzi e di vivificare le emozioni.
Si ride e lo si fa di gusto, mentre piano piano sedimenta quel grammo di sostanza profonda su cui ci si invita a riflettere: ha a che fare col presente, con le relazioni, col modo estremamente variabile in cui ognuno le può vivere e strutturare, e che può lasciare addosso un senso di vaghezza che somiglia a un’insoddisfazione mai del tutto ben definita: “È l’odore dei tempi, ce l’abbiamo tutti”, dice sul finire l’intruso (che intruso in realtà non è) e reclama una contiguità che è abitudine nel frequentare casa di lei. Si percorre quel sentimento diffuso in cui si elemosinano scampoli di benessere, mentre si vagheggiano ipotesi di gioia improbabile, confronto tra spazi vuoti che ci appaiono mai completamente riempibili, quelle felicità intraviste come ne “Le passanti” di De André, che qui però sviliscono prim’ancora di poter svanire, e che lasciano in scena due solitudini forse un po’ meno sole di quando si sono incontrate, ma pur tuttavia incapaci di diventare tutt’uno, e destinate a rimanere, comunque, meno di due.
Meno di due
scritto e diretto da Francesco Lagi
con Anna Bellato, Francesco Colella, Leonardo Maddalena
uno spettacolo di Teatrodilina
in collaborazione con DOG residenza produttiva Carrozzerie n.o.t.
suono Giuseppe D’Amato
scene Salvo Ingala
costumi Ilaria Ladislao
luci Martin E. Palma
organizzazione Regina Piperno
illustrazione Antonio Pronostico
durata 1h 10’
applausi del pubblico 3’ 15’’
Visto a Napoli, TAN – Teatro Area Nord, il 21 aprile 2024