Menoventi e Pardés Rimonin sulla sopravvivenza, artistica e non solo. Intervista doppia

Survivre (etape 1) photo: santarcangelofestival.com|photo: santarcangelofestival.com|photo: santarcangelofestival.com
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Survivre (etape 1) photo: santarcangelofestival.com
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E’ un ambiente raccolto, circolare, quello che ci aveva accolto al Teatrino della Collegiata di Santarcangelo di Romagna, occasione, lo scorso luglio, del debutto di “Survivre (étape 1)”, primo studio di uno spettacolo di Menoventi insieme alla compagnia francese Pardés Rimonin, realizzato a quattro mani all’interno di un progetto di residenza avviato nell’inverno 2013, ma non ancora concluso.
Il Festival di Santarcangelo era così stata l’occasione non solo per assistere allo spettacolo ma anche per parlare a più voci di questo progetto.

Un pannello bianco come fondale, una piccola panca in un angolo, Consuelo Battiston e Amandine Truffy si tengono le mani l’un l’altra sedute a capo chino. Luci appena accennate e dalle tonalità fredde illuminano una scena scarna ed essenziale.

L’azione si apre con un dialogo ambiguo, le cui battute sembrano sorrette da spostamenti spaziali disconnessi dal piano narrativo o in evidente contrasto con la parola.
Richard e Emmeline, i due personaggi le cui voci si spostano da un’attrice all’altra in un fluido scambio di ruoli, sono volti senza tempo né contesto: “Bugiarda!”, “Non ti voglio più vedere!”, “Non possiamo capire tutto”, “Ma cosa significa morto e sepolto?”, “Ma tu sanguini!”, sono alcune delle frasi che (si) rivolgono, gettandole nel silenzio dello spazio che si crea tra ogni battuta e la sua risposta. C’è un vuoto logico, una disorganicità tonale delle voci e della cadenza narrativa non immediatamente colmabili.

Dura pochi minuti, poi la scena si ripete identica, come se fosse una registrazione di sé stessa finché, protratta ad oltranza, s’inserisce sullo sfondo la proiezione di alcune scene di “The Blue Lagoon”, celebre film americano del 1980 che narrà le scoperte sessuali e il percorso di crescita di due cugini naufragati in tenera età su un’isola deserta. Tratto da un romanzo ambientato in epoca vittoriana, il film ebbe un notevole successo commerciale e qualche problema legale per le scene di nudo di un’attrice ancora minorenne.

Identica a sé stessa e riproduzione di un montaggio, la copia teatrale attinge dal non più originale cinematografico, stravolgendolo e stratificandolo di sensi ironici, contrapposti, vaghi, avvolti nella retorica (voluta) delle scelte musicali.
Ma il sabotaggio dell’originale e l’ironia che emerge dal lavoro di rielaborazione fatto da Menoventi e Pardés Rimonin sono i risultati di un processo di riproduzione studiato e calcolato nei dettagli.

Nell’arte che tipo di rapporto s’instaura tra copia e originale? Abbiamo intervistato Gianni Farina (Menoventi) e Bertrand Sinapi (Pardés Rimonin) per cercare di capirlo scoprendo i retroscena di “Survivre”.

photo: santarcangelofestival.com
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Cosa unisce le vostre compagnie da un punto di vista progettuale? Se dovessimo usare il termine “poetica dell’intenzione”, qual è l'”intenzione” che condividete in Survivre?
G. F. Innanzitutto questo studio nasce da un progetto di Pardés Rimonin. Sono loro che hanno fatto il primo passo e ci hanno coinvolto nelle loro Résidences Nomades, momenti di creazione che vengono organizzati ogni volta in luoghi diversi coinvolgendo compagnie sempre diverse e a loro sconosciute.

B. S. Sì, solitamente lavoriamo a cicli di tre anni con compagnie che non conosciamo affatto, per metterci alla prova e confrontarci davvero con le differenze d’impostazione drammaturgica, metodologia, recitativa o registica.
Scegliamo una tematica e lavoriamo su quella. L’idea è, per noi di Pardés Rimonin, di arricchire il nostro percorso artistico, ma anche di mettere in comune le risorse e costruire collettivamente un pensiero che sia attuale. Ci interessa capire quali sono gli strumenti attraverso cui si creano nuove risorse, analizzando collettivamente le questioni teatrali o politiche o economiche più urgenti e che condizionano dal profondo il nostro lavoro artistico. Ci interessa capire cosa significhi collaborare oggi e come risollevare l’importanza della creazione artistica a più mani, cosa di cui, in primis, io sento come mancante nel contesto francese.
La cooperativa E era già stata coinvolta in una precedente edizione di Résidences Nomades, con la partecipazione di ErosAntiEros. Inoltre conoscevamo Fanny&Alexander e i loro lavori, per cui l’avvicinamento a Menoventi è stato abbastanza immediato.

G. F. C’è stato un piccolo passaggio intermedio in verità, che per noi è stato molto importante.
Quando siamo stati chiamati a rappresentare uno dei nostri ultimi lavori, “L’uomo della Sabbia” in Belgio, abbiamo dovuto tradurre in francese le voci fuori campo. Non conoscevamo direttamente Pardés Rimonin, ma avevamo avuto modo di conoscere i loro lavori con ErosAntiEros e, incuriositi, ci siamo rivolti a loro per la traduzione. Il tutto è avvenuto via skype, senza contatto diretto. Quando ci hanno inviato i file e li abbiamo ascoltati, è successo che ci piacessero di più della versione italiana, fino a riadattarla attingendo dai dialoghi in francese.
Quindi quando ci hanno chiesto se eravamo interessati a questa residenza, non poteva che essere un sì.

B. S. E poi in “Dé-livrance”, il nostro ultimo spettacolo, abbiamo coinvolto Menoventi per la versione italiana.

G. F. Io e Consuelo eravamo traduttori-attori in scena. E’ stato molto interessante e divertente per noi. L’abbiamo presentato a Ravenna lo scorso inverno. E’ uno spettacolo che riflette sul potere e sul caso. Tutto è deciso dai dadi, dal costume dell’attore ai suoi movimenti, fino a parole e azioni. Una riflessione interessante anche su quali possano essere gli innesti causa-effetto di uno spettacolo.
Infatti l’attenzione che viene data alla metodologia di lavoro nelle Résidence Nomades è una riflessione sull’arte anche di tipo politico, molto presente anche in “Survivre”, che si può dire ruoti attorno al concetto di riproduzione.

Cosa significa per voi immediatezza dell’arte oggi, in quella che Benjamin aveva definito “l’era della riproducibilità tecnica”?

G. F. Menoventi aveva già indagato questa tematica. In due spettacoli, “Perdere la faccia” e “L’uomo della sabbia”, il meccanismo pervasivo del loop era per noi un pretesto per giocare con la copia di noi stessi. In questo caso la copia avrebbe fatto riferimento non solo ad una lavoro esterno, non nostro, ma neppure teatrale, scelta che ci permetteva di ampliare un tessuto d’indagine al quale già ci eravamo avicinati. Per cui questa ricerca formale suggerita da Pardés Rimonin ha sposato perfettamente la direzione del nostro percorso.

B. S. Con Menoventi si è verificata subito una stretta comunanza d’idee. Durante le Résidences Nomades io sono sempre il direttore finale e la divisione dei ruoli è spesso necessaria per la semplificazione del processo creativo. Con Menoventi è stato tutto un po’ più fluido. Avevamo la stessa visione d’intenti.

Cosa significa il termine “copia” da un punto di vista artistico e politico? Qual è il legame tra “copia” e “identità”?
B. S. Per quanto riguarda la questione della ricerca e della purezza come antitesi al processo imitativo e dunque alla copia, da autore, è per me una riflessione imprescindibile.
E’ un discorso complesso che tocca moltissimi aspetti dell’arte: nell’arte pittorica la copia è un gesto normale e nell’arte contemporanea ci sono interi movimenti che indagano la copia e cosa dell’originale può scomparire e trasformarsi all’interno di un processo imitativo. Nella musica ci sono le variazioni: si mantiene il tema, ma sostanzialmente il risultato finale è un’altra opera.
Nel cinema, la qualità della copia persegue l’identico, ovvero la perfezione tecnica della riproduzione come abilità, come strumento, come supporto tecnologico.
Riprodurre è il gesto dell’apprendimento per eccellenza, è un gesto di appropriazione. E’ un gesto culturale basilare, è ‘il’ gesto culturale.

Partendo, come dici tu, dal fatto che l’atto imitativo è qualcosa di imprescindibile dai processi cognitivi dell’uomo e del suo vivere sociale, c’è comunque una sottile differenza tra copia consapevole e copia non consapevole. Esiste la riproduzione anche come discorso culturale in termini foucaultiani, ovvero di modelli calati dall’alto ai quale ci si deve attenere e che si deve riprodurre. L’imitazione imperativa, potremmo dire, per raggiungere una funzionale omologazione… Ho letto, in quest’accezione provocatoria, la scelta del film hollywoodiano come insieme di cliché da riprodurre.
G. F. In verità abbiamo scelto “Laguna Blu” per un motivo più immediato, legato alle sue tematiche, però sì, probabilmente l’ironia che vedevamo in questa scelta è legata insconsciamente a ciò che tu dici e all’aspetto commerciale del film.
La tematica della sopravvivenza, da cui “Survivre”, è sicuramente rintracciabile in moltissime altre opere cinematografiche più colte e profonde, ma “Laguna Blu” ci permetteva un certo tipo di analisi e certi giochi di montaggio.
Probabilmente nello sviluppo finale del lavoro “Laguna Blu” non sarà il punto di partenza o scomparirà del tutto. E’ stato per noi un pretesto per scoprire una matrice. Ora abbiamo una pasta madre, uno scheletro di riferimento, ma nel lavoro conclusivo potrebbero modificarsi moltissimi elementi rispetto a questa prima tappa.

B.S. Un’altra questione importante legata alla copia è quella della proprietà intellettuale. A chi appertiene cosa? Io parto da un’idea anarchica di “furto”.

photo: santarcangelofestival.com
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Proprietà intellettuale o economica che determina identità. La proprietà genera da sempre sicurezze identitarie, ruoli sociali e permette d’inserirsi all’interno di una struttura gerarchica. Credo che questo valga anche in termini culturali. L’identità è un’appropriazione culturale?
G. F. L’eterodirezione del pensiero, per tornare a Fanny & Alexander, è una questione urgente. L’identità libera è un qualcosa che, nelle nostre società, è sempre più complesso. Forse non ha neppure più senso parlare d’identità al giorno d’oggi, ma questo scardinerebbe troppe sicurezze e il senso dell’appropriazione.

B. S. Pasolini diceva che tornare ad essere individuo è l’unica forma di resistenza possibile in una società di massa e all’identità imposta. Come tu dicevi riferendoti al film, ma penso anche alle pubblicità, ci vengono proposti sempre di più, da ogni direzione, regole, cliché, modelli predominanti da imitare.
Nella teoria di Walter Benjamin sulla società dello shock, ciò che viene teorizzato è lo shock onnipresente. Le nostre società vivono su scosse d’assestamento continue. E’ anche il caso degli intermittenti francesi. Le proteste che sono emerse sono la conseguenza di uno shock, ma affiancato da tante piccole altre esplosioni collaterali tra loro inevitabilmente interconnesse. E’ il grande mondo della filosofia post-marxista.

G. F.
Come aveva scitto Giorgio Agamben, viviamo in uno stato di continua emergenza.

Quindi “Survivre” a cosa? Raggiungere il post shock oppure arrivare all’apice dello shock per poter ridefinire il mondo attuale? Nel suo essere un cult hollywoodiano, “Laguna Blu” suggerisce un ritorno alla conoscenza sperimentale e diretta, narrando di due soggetti culturali che, privati della memoria sociale ed educativa, ritornano all’ingenuità della scoperta. La tabula rasa delle istanze culturali e il mito della rigenerazione. Che ne pensate?
G. F. Sul tema della sopravvivenza, come spunto di riflessione, un primo suggerimento ad avermi molto colpito arriva da Bertrand, che citava la cultura a tema catastrofico – che va molto di moda ultimamente in Francia e in America – in ambito cinematografico.
S’immagina la fine del mondo a colori apocalittici e violenti: pochi eletti sopravvivono e possono ricostruirlo migliorandolo. Se questa è la fantasia ricorrente, significa che si è persa la speranza di agire in questo mondo, nel presente del qui e ora. E’ qualcosa di preoccupante questa manifestazione collettiva di disperazione. Per questo “sopravvivenza” ci sembrava una tematica attuale.
Tra l’altro tutte le scelte di montaggio rimandano a questo immaginario e pongono questa riflessione in un contesto sospeso, privo di scenografie e avulso dal tempo. La copia teatrale, se si può dire, mima le battute, i gesti, il tono delle voci del film, ma opera una scarnificazione dell’originale. Lo riformula distruggendolo?
I processi di frammentazione sono estremamente fertili di possibilità creative. Attraverso la frammentazione puoi modificare completamente la realtà. Mi viene in mente il paradosso di Achille e la tartaruga che, attraverso la frammentazione dello spazio e del tempo, dimostra la possibilità di qualcosa d’impossibile, ovvero che Achille non riuscirà mai a vincere.

B. S. Tra copia e originale l’interessante è la distanza che si crea tra i due estremi. Cosa avviene in mezzo, qual è la materia che esiste tra questi due punti? Per questo lo spettacolo, inteso come “prodotto finale”, entra in secondo piano nella nostra riflessione artistica, mentre ci interessa molto di più il processo creativo.
Due elementi sono essenziali: il primo è dare forma ad una volontà politica, il secondo chiedersi come fare teatro oggi. Indagare la riproduzione e l’atto imitativo ci permette di guardare diversamente l’originale e di colmare ciò che manca.
Le Résidences Nomades ci restituiscono un senso di famiglia teatrale che combatta contro la solitudine dell’oggi.

SURVIVRE
con: Consuelo Battiston e Amandine Truffy
Regia: Gianni Farina e Bertrand Sinapi
Produzione E/MENOVENTI/PARDES RIMONIM

durata: 30′
applausi del pubblico: 2′

Visto a Santarcangelo di Romagna, Teatrino della Collegiata, il 18 luglio 2014

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