Mephisto. Luca Micheletti tra arte, potere e caduta

Mephisto (photo: Umberto Favretto)|Fracassi e Micheletti in Mephisto (photo: Umberto Favretto)
Mephisto (photo: Umberto Favretto)|Fracassi e Micheletti in Mephisto (photo: Umberto Favretto)

“Vada via, vada via, attore!”. Quel grido iroso, pieno di disprezzo per un’arte sublime come quella del teatro, pronunciato dall’ufficiale nazista nel film di István Szabó del 1981 “Mephisto”, è uno dei momenti cinematografici che più ci sono rimasti incisi nella memoria per la grande forza emblematica su come il potere abbia sempre avuto in uggia, nel suo profondo, l’arte e gli artisti.

Un disprezzo, ma anche una sotterranea, vicendevole necessità, che ora al Franco Parenti di Milano, il trentenne Luca Micheletti mette in scena imbevendoli di nuovi succhi interpretativi, su sua regia e adattamento, rioffrendo al pubblico quella triste fantasmagorica storia, ispirata alla carriera dell’attore Gustaf Gründgens (nella finzione letteraria Hendrik Höfgen), così come era stata raccontata in un romanzo del 1936 dal cognato Klaus Mann, secondogenito del grande Thomas.

Attraversando gli anni terribili del nazismo, lo spettacolo narra l’ascesa di un attore che, partendo dai piccoli teatri della provincia, passa gradualmente, per mezzo di un’ambizione sfrenata, dal “cabaret rivoluzionario” di ispirazione comunista, a diventare il disinvolto intendente del Teatro Nazionale tedesco, con un patto che ricorda molto quello tra Faust e il diavolo, così come lo racconta Goethe. Un patto mefistofelico dell’attore con il nazismo, reso sul palco con tanto di fuoco da un diabolico gerarca (Michele Nani), dapprima apparsogli in sogno e poi diventato reale in tutta la sua sprezzante, accattivante, volgare, violenza tentatrice.
Accanto a lui, Mephisto, attore sublime, interprete eccelso di quella parte, incarnazione stessa dell’arte. Vittime sacrificali saranno Miklas (Massimo Scola), perfetta antitesi del protagonista compiendo un cammino inverso: da giovane attore, affascinato dalle teorie naziste, a macchinista teatrale, infine consapevole dell’orrore che si sta consumando; e Juliette (Lidia Carew), l’amante nera che dovrà necessariamente essere espulsa, perché impura.

E poi c’è lei, Lotte (Federica Fracassi), entrata timidamente nella vita di Hendrik che poi, diventata con caparbietà sua compagna di scena, sceglierà la via del grande successo, diventando l’amante del diavolo stesso.

Sono figure che accompagnano come ombre il protagonista, il quale, pur dilaniato da dubbi che sempre lo tormentano, sarà costretto ad abdicare dai suoi ideali accettando tutti i compromessi che il ruolo tanto agognato gli propone, cadendo così nel baratro, come un angelo senza più le ali dell’arte pura che lo avevano fino ad allora in qualche modo sorretto.

Sono simboli tutti questi, presenze di un rapporto con l’arte e con la vita sempre attuali.
Ma non c’è solo questo nello spettacolo; c’è la spasmodica voglia dell’attore, del teatro, di superare gli angusti spazi in cui si racchiude (e infatti l’esiguo palcoscenico della sala A del Parenti che accoglie lo spettacolo non riesce, simbolicamente, a contenerlo) per diventare eterno, trascendendo, tra realtà e finzione, i propri limiti umani per farsi puro strumento di creazione assoluta.

Tutto è volutamente sopra le righe in questo “Mephisto” (in scena a Milano fino al 13 dicembre), riverberato ossessivamente dalle percussioni live di Maurizio Felicina e da una recitazione che si rifà a canoni ottocenteschi, sempre venati però di autoironia beffarda ma anche della consapevolezza dolorosa che purtroppo nulla può fare l’arte davanti all’orrore.

Luca Micheletti, che già conoscevamo soprattutto per la straordinaria avventura interpretativa e creatrice de “La resistibile ascesa di Arturo Ui” con Orsini, crea una maschera difficilmente dimenticabile. E’ una vera “goduria” vederlo recitare insieme a una sempre bravissima Federica Fracassi, donna in carriera dalle mille sfumature, nella convinzione che, al di là della crisi del nostro teatro, esistano ancora interpreti su cui poter fare affidamento.

Per comprendere meglio la messa in scena di questo spettacolo dalle mille sfaccettature abbiamo posto a Luca Micheletti alcune domande.

Come ti sei comportato, nello scrivere la drammaturgia, rispetto al libro di Mann?
Più che sul romanzo, ho lavorato soprattutto sulle biografie dei protagonisti e dello stesso autore (che si autoritrae in più d’un personaggio). Non mi interessava particolarmente il risvolto “familiare” di questa vicenda, quello legato ai Mann e ai loro rapporti con il mattatore Gründgens (a cui il libro dedica molto spazio). Ho scelto di lavorare innanzitutto sull’avventura teatrale delle figure storiche effigiate nel sontuoso affresco di Klaus Mann, quell’avventura intessuta di carrierismo e nevrosi, di esibizionismo e di rêverie che deve ad un tratto fare i conti con la realtà.
Il nazismo, in questa storia, non rappresenta soltanto il male assoluto (il diavolo con cui stringere un patto per restare in vita e avere successo) ma anche la mostruosa macchina del reale, l’orribile forza che pone fine ai sogni e all’arte, che distrugge l’arte o, meglio, se ne ciba.
«Ogni regime ha bisogno del teatro» vien detto a un certo punto, ed è un’inquietante verità. Klaus Mann scrive un “instant book” privato e dolente almeno tanto quanto aggressivo e satirico contro il suo ex cognato. Il suo pregio maggiore, credo, sta nell’aver contribuito in maniera assai raffinata (e ravvicinata) a svelare la “società dello spettacolo” non solo del teatro degli ultimi anni di Weimar, ma anche la “società dello spettacolo” nazista e i rapporti segreti del regime con la performance: Hitler che prende lezioni di portamento e public speaking da un attore, Göring ossessionato dalle divise-costume e che sposa un’attrice, Goebbels che minaccia e corteggia Fritz Lang…
Storia e rappresentazione si confondono e stringono un patto criminale. Questo è il tema che mi preme maggiormente, insieme a quello della metamorfosi di un attore (anzi, di un gruppo d’artisti) costretti a cambiare pelle e maschera e, al contempo, a prendere posizione in maniera esplicita rispetto all’arte e al potere.

Fracassi e Micheletti in Mephisto (photo: Umberto Favretto)
Fracassi e Micheletti in Mephisto (photo: Umberto Favretto)

Quali sono stati gli altri riferimenti drammaturgici? Sei stato influenzato anche dal film di Szabò?
Per queste ragioni, i riferimenti drammaturgici di questo “Mephisto” vanno oltre il romanzo di Klaus Mann. Mi sono servito, in particolare, della drammaturgia di Wedekind (la cui figlia, Pamela, è una dei protagonisti del romanzo stesso e fu compagna e “alter ego” dello stesso Gründgens), poiché Wedekind, benché morto nel 1918, ha disegnato forse meglio d’ogni altro il profilo del performer in crisi con la performance, staccato dalla realtà e, al contempo, precipitato al fondo di essa (penso a Franziska, a Hidalla, a Musik, al Cantante di Camera, ma anche ai drammi maggiori): una inedita e crudele maschera i cui caratteri si sono messi a fuoco sempre di più e sempre meglio, passando per Schnitzler (Scena madre), Sternheim, Cocteau, Brecht, fino all’Hendrik Höfgen di Klaus Mann e, con altra chiave, all’Adrian Leverkühn di Thomas Mann.
Del film di Szabó non mi sono servito particolarmente. Segue molto ordinatamente la scansione in sequenze del romanzo cui s’ispira e ne è una precisa trasposizione cinematografica. A me non interessava trasporre il romanzo in teatro, quando “restituirlo” al teatro, nei suoi temi cruciali, nella sua sfrontatezza, per lo straziante sberleffo che rappresenta, il grido di un amante tradito dall’arte.

In che modo hai utilizzato i riferimenti al Faust di Goethe?
Con eleganza e sapienza, Klaus Mann tiene il Faust di Goethe come riferimento costante: non solo a livello esplicito, facendo del suo protagonista un piccolo Faust (che, per ironia della sorte, però, è imprigionato nel ruolo del suo antagonista: Mephisto appunto), ma anche a livello sotterraneo, ricamando scena per scena un rizoma di rimandi e citazioni veramente entusiasmante e sottile a decrittarsi.
Ho cercato di fare affiorare il più possibile la struttura originaria del Faust, anche in scena: ne cito ampi stralci (in traduzione arcaica, perché si percepisca lo scarto di registro), ma sempre senza soluzione di continuità rispetto ai dialoghi. Il Faust è un’ossessione, un mito fondativo, un morbo invincibile e un amore inestirpabile dell’anima tedesca. Lo stesso Goethe voleva farne un’opera (anche) satirica: Mephisto è dunque la satira della satira e ha il pregio – come già avevano fatto proprio Wedekind in Franziska e poi De Ghelderode nel suo Faust da Music-Hall – di fare del protagonista un perfomer e non più un dotto assetato di conoscenza e smanioso di superare i limiti dell’umano.

Ci sono riferimenti anche al dottor Faust dello stesso Mann?

Lo stesso tema verrà ripreso dal più grande dei Mann, nel capolavoro che segue Mephisto di undici anni. Anche nel Doktor Faustus il protagonista è un artista e, anche lì, lo sfondo in cui s’ambienta il suo patto con satana è quello del nazismo. I due romanzi si toccano in tanti punti, benché raggiungano esiti diversissimi: entrambi vogliono essere una riflessione sull’arte e i suoi fatali paradossi, ma – molto in sintesi – se a Klaus interessa il “tipo”, a Thomas preme il tema.
Siccome anche a me, più che il “tipo” simbolico dell’attore ambiguo, interessava il tema dell’autenticità/inautenticità del teatro nei suoi rapporti con il politico, ho di fatto incrociato le prospettive e ho stralciato dal Doktor Faustus larghi frammenti, in particolare dal dialogo centrale del protagonista con il suo ripugnante Mephisto (sogno? realtà?) che, viene detto, parla guarda caso «con voce impostata da attore di teatro».
Ho inventato di sana pianta, così, un incontro onirico del mio Höfgen con il suo diavolo viscido e pedante, creando una sorta d’intermezzo grottesco atto ad ospitare anche una riflessione sull’antichissimo paradosso sull’attore, alla cui discussione lo stesso Gründgens partecipò anche da teorico, prendendo posizione nella schiera dei “formalisti”, contro i “sentimentali” (non è forse, questo, un tema profondamente manniano? Basti pensare anche al solo breve e suadente capolavoro di Tonio Kröger)…

Ancora oggi il rapporto tra arte e potere è molto forte e conflittuale. Come ti sei mosso per introdurre la contemporaneità di questo rapporto nello spettacolo?
Non ce l’ho introdotta di forza, è l’opera stessa che la chiama in causa. La contemporaneità, in generale, è premessa indissolubile di qualsiasi fatto teatrale. Il teatro esiste nel suo tempo, oppure non esiste. Questo spettacolo, in particolare, parla all’oggi e dell’oggi, e non al di là dell’ambientazione storica della vicenda, ma proprio in funzione di essa.
Torniamo a parlare di totalitarismo e regime, di distruzione dell’arte, di ambiguità e necessità di prendere posizione poiché, evidentemente, ce n’è il bisogno reale.
Eravamo in scena quel terribile venerdì dei fatti di Parigi: rientrare in camerino e scoprire cosa stava accadendo, considerare che, di nuovo, per attaccare una civiltà, si attaccano le basi della condivisione, della socialità, dell’incontro umano e della cultura; scoprire che si è scelto, ancora una volta, un teatro e una performance per imporre la dittatura della paura, ci ha fatto sentire sgomenti e utili allo stesso tempo. Fin dalla sera dopo molte battute dello spettacolo suonavano diversamente, per noi stessi e per il pubblico: una vibrazione di responsabilità, al di là di ogni retorica, palpabile, che corre tra scena e platea. Andare in scena con questo lavoro, ora, per tutti noi, dona senso al ruolo dell’attore come operatore e custode di civiltà.

Mi sembra che nei tuoi spettacoli, non solo in questo, tu voglia incarnare una specie di nostalgia per i grandi attori di una volta. E’ vero? Ci manca quel tipo di recitazione, quel modo anche di fare teatro, così legato alla parola?
Non so se la definirei nostalgia. Forse è solo la coscienza di quello che ci ha portati a cosa siamo, teatralmente intendo. Non mi sento legato al passato con sentimenti ostili nei confronti dell’oggi, anzi: mi sembra che la linea di demarcazione posta fra un prima e un dopo sia di per sé soltanto un modo di nascondersi, sia per i nostalgici che per gli avanguardisti (entrambe categorie, in fondo, in via d’estinzione, quanto meno con queste etichette).
In teatro, invece, non devi, non puoi nasconderti.

Hai dei modelli?
I modelli sono ovunque, sia in positivo che in negativo: basta formarsi una consapevolezza e un “gusto” teatrale. È una parola a cui tengo, “gusto”. E non va intesa in senso perbenista o reazionario. Intendo con essa riferirmi ad una serie di pratiche (sia di creazione che di fruizione del teatro) che spesso vengono ignorate con troppa disattenzione, poiché il loro apprendimento è faticoso e non c’è modo di affinarle se non sul campo e nel segno di un grande e umile rispetto per secoli d’arte dietro le nostre spalle.
Io sono figlio di una tradizione popolare che affonda nel teatro dei guitti zingari e nobili dell’Ottocento: è una spina dorsale che porto con orgoglio, ma senza paraocchi. Mi sono allontanato, ho studiato, ho ricominciato, mi sono dovuto inventare un senso e un segno per la mia biografia artistica – e non ho finito. So che ho una responsabilità verso quattro generazioni di teatranti, ma questo è più un fatto romantico e personale. Fare teatro oggi, qui, prescinde e deve prescindere dal romanzo privato di ogni artista; eppure, ho dovuto e voluto riflettere a lungo sulla mia eredità.

Come si inserisce questo spettacolo nel tuo percorso di attore?
Segna un passaggio importante, in cui esplicitamente scelgo di ragionare sul ruolo dell’artista fra tradizione e futuro: non sciolgo il nodo, pongo la questione.
In “Mephisto” c’è teatro di parola, sì, ma non solo: c’è un grandissimo investimento performativo di natura fisica, da parte di tutti, c’è l’esplicito riferimento a usi e nevrosi del teatro d’antan come l’amara presa in giro degli stereotipi della “ricerca” più sterile.
Se il teatro è una forma di conoscenza della realtà e dell’uomo, se è un dispositivo per relazionarsi all’oggi e alla vita, non va dimenticato che il suo funzionamento è delicato e il suo “manuale d’istruzioni” è scritto nelle lunghe e ardimentose cronache di secoli d’arte scenica.
Ciò detto, ogni forma, ogni citazione, ogni memoria, per funzionare devono essere riempite di vita e d’amore. Il teatro vive d’amore per il teatro. Tutto il teatro, purché vivo.

MEPHISTO Ritratto d’artista come angelo caduto
liberamente ispirato alla carriera di Gustaf Gründgens
raccontata da Klaus Mann
con Federica Fracassi, Luca Micheletti, Michele Nani, Massimo Scola, Lidia Carew
e con Maurizio Felicina alle percussioni
regia e drammaturgia Luca Micheletti
scene Csaba Antal – costumi Valentina Fariello – luci Cesare Agoni – musiche Roberto Bindoni
Produzione CTB – Centro Teatrale Bresciano

Visto a Milano, Franco Parenti, il 1° dicembre 2015

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