Dall’installazione performativa “Rivolti” al progetto cinematografico “Todos los males”, alcune delle proposte in scena a Rovigo
Concludiamo il nostro reportage sul Festival Opera Prima organizzato a Rovigo dal Teatro del Lemming dal 26 al 30 giugno segnalando due creazioni particolarmente incisive.
«Compito del teatro – affermava negli stessi giorni il direttore artistico Massimo Munaro – è provocare un’azione o una reazione». E abbiamo sperimentato entrambe in quei giorni, in particolare attraverso due proposte che si sono distinte, più di altre, anche per scelte formali molto raffinate.
Per tutta la durata del festival è stato possibile partecipare singolarmente ad un’installazione performativa di MOMEC_Memoria in Movimento, collettivo rodigino di attori, fotografi, musicisti, semplici cittadini e studenti, uniti dal desiderio di riattivare all’interno della città la capacità di ricordare e creare comunità; al suo interno, circolano nomi noti nella compagine del Lemming: Mario Previato, Fiorella Tommasini, Antonia Bertagnon sono stati rispettivamente regista ed interpreti di un’opera sviluppata in residenza e prodotta dallo stesso festival.
“Rivolti” viene collocata nella Gran Guardia, porticato affacciato alla piazza principale, nel cui spazio è stata installata una struttura chiusa e divisa in due stanze.
Uno spettatore alla volta può salire le scale e rasentare le pareti, su cui fanno bella mostra lapidi in onore di eroi risorgimentali e delle due guerre mondiali; lo accompagna un canto popolare che inneggia con leggerezza alla guerra, creando un cortocircuito tra un passato trascorso e abbandonato a celebrazioni retoriche e un presente troppo urgente per essere compreso soltanto attraverso uno schermo.
Una guida conduce all’ingresso della struttura, articolata in una prima stanza nera ed in una seconda bianca: nella prima rose secche, nella seconda fiori vivi e vivaci; in entrambi i casi sospesi dall’alto come i sogni e le occasioni che siamo stati o saremo.
Si è soli nella stanza nera, seduti su una poltrona di fronte ad uno specchio, mentre una voce registrata amplifica i pensieri che potenzialmente ciascuno di noi può filare quando si accorge che sopravvivere è rinunciare.
La confessione di un senso di fallimento si modula come una resa ad un reale che non si è lasciato trasformare ma che ci ha trasformati, persuasi ad adattarci, e alle convenienze, tradendo noi stessi.
Nella stanza bianca, tra petali freschi e colorati, ci attende Fiorella Tommasini, che con estrema dolcezza accoglie ed invita alla fiducia lo spettatore, al termine di uno sprofondamento tra una realtà conflittuale ed un’interiorità frantumata. Pronuncia con compassione parole che rievocano l’elogio della debolezza di Simone Weil, rimarcando come tutto ciò che cresce si irrigidisca ed occorra con consapevolezza tornare ad uno stato di morbidezza come scelta controcorrente di resistenza. «Qual è la tua intima rivolta?» chiede in conclusione l’attrice.
Chi partecipa non può restare passivo, ha carta e penna in mano e, dopo qualche momento di solitudine, la sibilla torna a condividere la risposta in un momento di sospesa intimità. Poi accompagna lo spettatore ad uscire all’aperto e gli suggerisce di ripetere la sua risposta amplificata da un microfono alla piazza.
“Rivolti” nasce da una riflessione intorno a “L’uomo in rivolta” di Albert Camus ed è un dispositivo per scuoterci non solo dalla passività e dall’indifferenza ma anche dall’isolamento, riscoprendo nella nostra interiorità la forza della delusione, che può tornare a slanciarci verso l’esterno, perché pubblico e privato si modulano in osmosi.
Il percorso dura solo quindici minuti, ma vibra di un’intensità e delicatezza rare, grazie alle quali ci si inabissa e si è sostenuti a risalire e rinnovare la nostra capacità di azione.
La compagnia Anagoor è invece stata ospite con la proiezione del progetto cinematografico “Todos los males”: opera che la colloca nel solco della coppia Straub-Huillet (come già rilevato da Matteo Marelli) e di Bill Viola (Simone Azzoni), a cavallo tra cinema sperimentale e video-arte. Ma così come le loro prime creazioni per la scena si sono distinte per una marcata intermedialità, e nel tempo hanno fatto proprie alcune tecniche del cinema (montaggio dai ritmi imprevedibili, piani di lettura doppi, paralleli o contrastanti), altrettanto la loro prima vera e propria produzione cinematografica si nutre degli aspetti più ieratici e sincretici del teatro, e della sua costitutiva domanda sul limite tra realtà e finzione, tra rappresentazione veritiera ed inganno.
La pellicola è nata dalla commissione, nel 2022 da parte della Sagra Musicale Malatestiana di Rimini, dell’allestimento di uno spettacolo di teatro musicale, “Les Incas du Perou”, l’episodio più celebre tra i quattro che compongono l’opéra-ballet (una composizione che alterna parti cantate a numeri danzati) “Les Indes Galantes” di Jean-Philippe Rameau.
L’opera edulcora le imprese colonialistiche celebrando l’incontro di un’Europa “galante” con gli altri continenti, ed è sintomatico che questa prospettiva si attesti all’altezza del 1735, in pieno Illuminismo, e sia stata accolta come un capolavoro anche da Voltaire, nonostante le tracce di autocritica del Vecchio Continente siano decisamente flebili; anzi, nel libretto firmato da Louis Fuzelier si intrecciano stereotipi culturali e cliché barocchi tra loro molto contraddittori: il fascino per l’esotico e al tempo stesso per la superiorità del progresso civilizzatore, per il buon selvaggio sminuito dalle sue stesse superstizioni, per motivi irrazionalistici come il prodigioso ed il trionfo dell’amore.
La trama dell’episodio peruviano ha il sapore di una favola: la principessa Phani, che addirittura dichiara di detestare il proprio «popolo barbaro», si innamora del conquistador Don Carlos, che insiste per uno strappo radicale dai suoi legami; il principe inca Huascar, rivale in amore, cerca di trattenere la ragazza colpevolizzandola e incutendole paura. Nessuno, evidentemente, è un personaggio senza macchie, e la contesa amorosa assume un rilievo tale per cui le dimensioni distruttive della colonizzazione si appiattiscono sullo sfondo. Un’opera, quindi, decisamente ambigua, sia nel suo complesso che in questa specifica vicenda, rispetto al riconoscimento della responsabilità europea di fronte ad un vero e proprio genocidio, che viene invece problematizzata più palesemente dal trattamento di Anagoor.
Il film monta tre livelli di rappresentazione: l’azione sul palco degli interpreti musicali e attoriali, che si fanno portavoci dell’Europa anche quando danno parola agli Inca e che saltuariamente si volgono a guardare davvero i personaggi, proiettati nel fondale; la partitura visiva delle proiezioni, composta in studio o en plein air – in una campagna veneta colonizzata dal mais, in un bosco vivo e in un altro incendiato; le riprese del pubblico presente alla messinscena al Teatro Galli di Rimini, su cui sono orientati degli specchi che riflettono una luce accecante e disorientante e al tempo stesso interrogano su chi e che cosa sia oggetto autentico della rappresentazione: non un momento storico cristallizzato nel tempo, ma forse, seguendo alcune suggestioni di Todorov, il nostro sguardo, i nostri strumenti di interpretazione, le categorie di giudizio a cui ancoriamo la lettura del mondo anche attuale.
Il titolo, “Todos los males”, è tratto da un passo di un documento spagnolo letto ai nativi pubblicamente, in presenza di un ufficiale regio ma in assenza di interpreti, avvertendoli esplicitamente che, se non avessero accolto le istanze della Corona e della Chiesa, i Conquistadores sarebbero stati legittimati a fare loro «tutto il male possibile». L’ingiustizia è stata quindi codificata dalla legge, svuotando il diritto e banalizzandolo a strumento di espropriazione non solo di risorse ma anche di identità e culture.
Il montaggio è contraddistinto da contrasti di velocità stranianti: la pellicola è girata in slow motion, in antitesi netta alla vivacità di una musica barocca godibilissima, a denunciare una volta in più le ipocrisie dell’opera originale e al tempo stesso «un’impossibile ri-costruzione», «la pericolosità della rappresentazione» di cui parlano le note di regia. Soltanto quando la catastrofe dell’eruzione di un vulcano e quella dell’avanzata degli Spagnoli si intrecciano, la Storia sembra precipitare in un vortice di immagini dove i volti di altre comparse collaterali ai protagonisti si disperdono. Altre volte, la stessa musica d’opera si interrompe, sospesa in un’amalgama più soffuso di note basse e rarefatte, scricchiolii o altri rumori oggettuali.
Proprio in virtù di queste scelte molto lente, si riconosce meglio l’impronta teatrale: i volti hanno una centralità che corrisponde al tentativo di rapirne l’espressività, tuttavia questa (come nella poetica scenica degli Anagoor) resta sempre molto controllata e sibillina e diventa quindi integrante il codice gestuale.
Volti e corpi sono i pochi elementi nitidi della fotografia, caratterizzata da una sfocatura costante, che da una parte ammalia sul piano estetico per la raffinatezza del risultato, dall’altro è lo strumento di denuncia della parzialità del nostro sguardo. La fallacia della rappresentazione si dichiara più palesemente nelle scene riprese in studio, dove gli strumenti per realizzarle non sono nascosti (una pedana girevole, casse di amplificazione, il passaggio dei tecnici, impalcature, teli stampati a riprodurre uno sfondo naturalistico); o anche nelle riprese all’aperto, dove truccatori e costumisti intervengono a dipingere la pelle nuda di coloro che interpretano i nativi e a decorarli con posticci ornamenti dorati. Quell’immagine stereotipata dell’indigeno, frutto di un’elaborazione fantasiosa di Theodore De Bry che per primo nel Cinquecento rappresentò quei popoli senza averli mai visti, viene riproposta come un mascheramento da cui non riusciamo a liberarci.
Molti sono i passaggi in cui lo spettatore è provocato ad interrogarsi sia sulla storia, che sull’attualità, e dove quindi sembra di sfiorare la verità. A questo risultato ha concorso anche la scelta singolare di coinvolgere nella scrittura drammaturgica e nelle riprese alcuni membri della comunità peruviana di Padova. Una di loro interpreta, all’inizio del film, una danza indigena cancellata dalla propria cultura ed in modo circolare nella conclusione propone un’altra danza, sostituita dalla cultura spagnola per esprimere lo stesso tema. Una delle sequenze più incisive, avviandoci al finale, è una successione di primi piani delle varie comparse peruviane, in abiti contemporanei, che ci guardano fissamente, immobili e composti, mentre i fondali alle loro spalle vanno a fuoco.
La riflessione sul passato si annoda così a quella sul presente, su una difficile convivenza multietnica che è il distillato di operazioni storiche di cui rimuoviamo l’esclusiva responsabilità. Resta quindi aperta la domanda su come, in un mondo postcoloniale come quello attuale, riuscire a decolonizzare autenticamente lo sguardo, il linguaggio, la prassi politica e civile.
La conclusione del film ci accompagna all’uscita dalla sala con un simbolismo polifonico che non può non risuonare per giorni. La principessa Phani, ritratta in alcuni fotogrammi in abiti regali occidentali, in altri con una veste più semplice, ci guarda dai corridoi di un labirinto di siepi, ambientazione che il correlativo oggettivo da una parte del suo mondo e vissuto interiori, articolati tra sentimenti e istanze tra loro contrastanti in cui non sa trovare pace; dall’altra del dedalo di circostanze, storiche e contingenti, che determinano le vite di molti che ancor oggi consideriamo gli “altri”.
Rivolti
di MOMEC_MEMORIA IN MOVIMENTO
da un’idea di Mario Previato
con Fiorella Tommasini, Antonia Bertagnon
assistenza e cura Nadia Poletti – allestimento Fioreria Boscolo di Marta – assistenza tecnica Silvia Massicci
produzione Festival Opera Prima
durata 15’
Todos los males_tutto il male possibile
una produzione ANAGOOR | KUBLAI FILM
un film di Simone Derai – da un progetto artistico ANAGOOR
tratto dall’allestimento de LES INCAS DU PEROU/ LES INDES GALANTES musica di Jean Philippe Rameau – libretto di Louis Fuzelier
direzione della fotografia Giulio Favotto – montaggio Simone Derai, Elia Risato – scene e costumi Simone Derai
interpreti principali Juana Myriam Chero Tarazona, Maria Elena Soto Chero, Marco Ciccullo, Cristian Alexis Alarcon Jara, Ekaterina Protsenko, Nicholas Scott, Matteo Dolcini
durata 1h 10’