“Le drammaturghe sono le voci più originali e innovative del momento”
Spesso il suo nome compare, in qualità di traduttrice, nei crediti delle grandi creazioni teatrali che costellano il nostro Paese.
Siamo andati in cerca di Monica Capuani che, traducendole dal francese o dall’inglese, ha contribuito al successo di molte opere in Italia. Una mansione dura e di grande e importante valore, quella del traduttore, ma di cui in teatro non si parla quasi mai. Per questo le abbiamo posto alcune domande, per cercare di approfondire il suo lavoro.
Laureata in Letteratura Italiana alla Sapienza di Roma, giornalista freelance nata nel gruppo Espresso-Repubblica, traduttrice letteraria da inglese e francese (ha al suo attivo una settantina di romanzi), in teatro fa un lavoro di scouting, ma è anche di promotrice e ad oggi ha tradotto ben 167 testi teatrali.
Ha partecipato in qualità di Maestro alla Biennale Teatro College 2019, allora diretta da Antonio Latella, e di nuovo nel 2021, sotto la direzione di Ricci / Forte. Svolge un’intensa attività laboratoriale per diffondere le nuove drammaturgie. Collaboratrice anche dell’emittente Radio Due, per la quale ha condotto la trasmissione “Libro Oggetto”, ha fondato una casa editrice di testi teatrali, Reading Theatre, che ha esordito con la pièce teatrale di Ann-Marie MacDonald “Buonanotte Desdemona (buongiorno Giulietta)”.
Monica si sta battendo per ritradurre grandi classici teatrali che in Italia vanno in scena in vecchissime traduzioni, che spesso ne appannano il valore. È stata sua, per esempio, la nuova versione di “Chi ha paura di Virginia Woolf?” di Edward Albee con la regia di Latella. Ma ha tradotto anche “Improvvisamente l’estate scorsa” di Tennessee Williams, pubblicato da Scalpendi e non ancora andato in scena, come è sua quella di “Le serve” di Jean Genet, che debutterà a febbraio per la regia di Veronica Cruciani.
Quest’anno Capuani ha tradotto su commissione due testi di spettacoli che stanno avendo molto successo: “Agosto a Osage County”, dell’americano Tracy Letts, prodotto dallo Stabile di Torino, e “Come gli uccelli” del libanese Wajdi Mouawad, messo in scena da Il Mulino di Amleto, la cui traduzione uscirà per Einaudi a gennaio.
Quali sono state le tue “scoperte” letterarie a cui sei più legata?
Ce ne sono molte… Sicuramente “I monologhi della vagina” di Eve Ensler, perché è stata la prima. Tutto è nato da un’intervista a Thandie Newton, che stava girando “L’assedio” di Bernardo Bertolucci. E’ stata lei a darmi i contatti di Eve e a spedirmi a Londra, dove la Ensler stessa stava interpretando il testo. Ne sono nati vari spettacoli che hanno girato l’Italia per quattro anni.
Un’altra scoperta che mi è molto cara è “The Pride” di Alexi Kaye Campbell, che poi è diventato un caro amico. Era un testo impossibile per l’Italia, come tanti di quelli che traduco per me, e per i posteri… Ma ogni tanto l’universo mi sorride, come in quel caso. Antonio Calbi era diventato direttore artistico del Teatro di Roma e aveva parlato in conferenza stampa del suo compagno. Al Campidoglio si era appena insediato Ignazio Marino, che aveva aperto alle unioni gay. Così sono andata da Calbi a portargli quel testo sull’omofobia. Il giorno dopo è passato a trovarlo Luca Zingaretti e Calbi gli ha dato il testo, che Luca ha diretto e interpretato, anche se tutti glielo sconsigliavano. Il risultato? Due anni di tournée trionfale.
Più tardi c’è stata anche una bella produzione di “Apologia” di Campbell, con una straordinaria Elisabetta Pozzi. Che l’anno dopo, al Teatro Olimpico di Vicenza, ha interpretato “Ecuba” della drammaturga irlandese Marina Carr, un capolavoro purtroppo interrotto dalla pandemia.
Ora stiamo lavorando a un altro testo della Carr con Federica Rosellini. Insomma, potrei parlare fino a domani…
In Francia, in Gran Bretagna, negli Stati Uniti e nei Paesi in cui si parlano le due lingue nelle quali sei specializzata, quali sono gli autori e le autrici che oggi più ti intrigano?
La mia predilezione per la drammaturgia di lingua inglese è nota. Sto seguendo con particolare interesse i testi delle drammaturghe, che sono le voci più originali e innovative del momento, anche se da noi – dove il teatro ha vertici ancora molto maschili – è più difficile mandarle in scena.
Lucy Kirkwood, Ella Hickson, Marina Carr, Zinnie Harris, Nina Raine in UK.
Annie Baker, Amy Herzog, Sarah Ruhl in America. E ovviamente la grande pioniera, la madre di tutte loro, la grande Caryl Churchill, ancora quasi sconosciuta in Italia.
In Francia autrici come Yasmina Reza e Nathalie Fillion mi interessano molto.
Mentre traduci un testo, pensi anche al modo con cui verrà messo in scena?
Penso soprattutto alla destinazione: alle persone alle quali potrei far leggere il testo, agli attori e registi ai quali quel particolare testo potrebbe piacere. Per poi costruire insieme a loro il processo produttivo. Vent’anni di giornalismo in grandi settimanali e mensili hanno fatto sì che conosca personalmente quasi tutti gli attori e i registi del nostro teatro e del nostro cinema. Questo è un grande vantaggio, la possibilità di parlare direttamente con loro. Sono loro che si innamorano dei testi e ne capiscono le potenzialità. E che poi partono lancia in resta per cercare la produzione.
Quando traduci, lavori anche con il regista?
Sì, ormai quasi sempre. Sono riuscita a far capire ai registi e soprattutto alle produzioni quant’è importante che io sia presente i primi giorni delle prove. La mia conoscenza profonda del testo chiarisce rapidamente tutti i dubbi, e posso essere a servizio degli attori e perfezionare la traduzione, che fa sempre un salto di qualità in quella fase. A quel punto, quando li lascio, non devono più preoccuparsi del testo, che funziona alla perfezione.
Come avvengono le vostre interconnessioni?
Dipende molto dai registi. Con ognuno c’è un modo di lavorare diverso.
E’ più facile tradurre dal francese o dall’inglese?
La vera sfida della traduzione da qualsiasi lingua è la resa nella lingua madre. La cosa che curo di più è la mia lingua italiana, che deve essere duttile e a servizio dell’autore, innanzitutto, per approssimarsi quanto più possibile alla bellezza del suo testo, e a servizio di chi quel testo deve recitarlo e di chi deve ascoltarlo. E poi c’è il mio particolare gusto e divertimento nel maneggiare la mia lingua, l’unicità della lingua di Monica Capuani. Credo fermamente che un bravo traduttore sia e debba essere un autore a tutti gli effetti.
Cosa secondo te, oggi, il teatro ha il dovere di raccontare?
Credo che le scelte dei testi che decido di tradurre, a rischio che rimangano nei miei cassetti virtuali – e sono tanti quelli che ci rimangono, perché ad oggi ho tradotto 166 testi e meno di un terzo è andato in scena -, testimonino del fatto che per me il teatro dovrebbe trattare i temi più controversi del presente. E qui la mia idea del teatro si rifà direttamente a quella della nascita della tragedia: una piazza di cittadini che riflettono sull’oggi e su quale futuro stiamo costruendo o vorremmo costruire. L’anno prossimo ho in programma una serie di laboratori e reading all’Elfo proprio su testi di questa importanza, ma di quasi impossibile produzione in Italia. L’obiettivo è quello di farli almeno ascoltare a chi vorrà venire.