Al centro del monologo scritto con il giudice Ferdinando Imposimato, la storia di Raffaele Iozzino e Franco Zizzi, caduti in via Fani, e il ruolo torbido delle istituzioni
“Vèn Natale co le bell fest, povera sement ca int’ o sacc rest”.
Così ripeteva la mamma di Raffaele Iozzino da Casola di Napoli, poliziotto 25enne che faceva parte della scorta dell’onorevole Aldo Moro. Raffaele rientrò da Roma a Casola poco prima di quel Natale del 1977, che sarebbe stato l’ultimo della sua breve vita. Tornò e piantò le fave nel campo di famiglia. Le piantine sopravvissero di poco a lui, ucciso dalle Brigate Rosse in quel famigerato 16 marzo del 1978 a Roma, in via Fani, insieme agli altri uomini della scorta di Moro. 55 giorni dopo, la stessa sorte toccò allo statista democristiano.
Le fave appassirono. Le piante sono sensibili al dolore degli uomini. In quel sacco di fave, di semi non ne restarono. In quel sacco ci finirono Raffaele, Giulio Rivera, Oreste Leonardi, Domenico Ricci. Viaggiavano con Moro su auto di scorta che non erano neppure blindate. In quel sacco ci finì Franco Zizzi da Fasano, 29 anni e una passione per il canto, la chitarra e le canzoni di Domenico Modugno. Francesco fu il quinto militare di scorta morto quel 16 marzo, ed era il suo primo giorno di lavoro al servizio dell’onorevole democristiano.
Il teatro come strumento di riflessione e denuncia. Come dolore che non è cedevolezza, tanto meno arrendevolezza. Al Teatro Menotti di Milano, Ulderico Pesce mette in scena “Moro: i 55 giorni che cambiarono l’Italia”, uno dei suoi monologhi più potenti. Uno spettacolo che ci riporta agli anni di piombo, alle Brigate Rosse, a Gladio. Soprattutto, riesuma una delle pagine più torbide della Prima Repubblica: quella delle stragi di Stato; quella delle gravissime e mai abbastanza denunciate connivenze tra istituzioni e servizi deviati; quella delle ingerenze della Cia, della finanza internazionale e del Segretario di Stato americano Kissinger.
Erano gli anni del compromesso storico e dell’avvicinamento tra Democrazia Cristiana e Partito Comunista Italiano. Consigliatissimo, per decifrarli, anche il film “Berlinguer. La grande ambizione” di Andrea Segre, in questi giorni nelle sale.
Ma qui la politica resta sullo sfondo. Ulderico Pesce, camicia bianca, pantaloni neri, si cala in quell’Italia di televisori Mivar, che ci restituivano uno spaccato plumbeo della nazione.
Monocolore la scenografia, un telo con le foto di Moro (nel covo delle BR) e degli uomini della sua scorta. Una scena con tre televisori che sono scatole vuote, come l’informazione manipolata che giungeva nelle nostre case.
Quest’emozionante spettacolo, con la partecipazione video del giudice Ferdinando Imposimato, con i retroscena d’inchiesta rivelati dallo stesso giudice, non è solo un tributo alla memoria storica di un tragico evento, ma un’indagine sul significato profondo di quelle morti e sulle ombre che ancora le avvolgono.
Una recitazione intima. Un’estrema naturalezza nel raccontare. Una relazione di cuori e sguardi con la storia, i personaggi narrati, il pubblico. Un dialogo con il passato e il nostro presente di spettatori, di uomini e donne. Quest’approccio non solo invita alla riflessione sulla dimensione politica della morte di Moro, ma anche sulla sua dimensione personale.
Ma l’elemento centrale che rende commovente il lavoro di Pesce è l’attenzione agli uomini della scorta di Moro, figure spesso rimaste nell’ombra, e che emergono con una potenza drammatica propria.
La storia di Raffaele Iozzino che ha combattuto fino all’ultimo respiro (l’unico che riuscì a rispondere al fuoco dei brigatisti e di chi li supportava dietro le quinte), narrata con gli occhi e la memoria del fratello Ciro, diventa simbolo di una giustizia senza luce, ma anche della lotta per una verità volutamente occultata. Iozzino è il volto di quei giovani uomini sacrificati in nome di un gioco politico e di un potere che non ha mai voluto che la verità venisse a galla. Qui troviamo lo smarrimento di Ciro, un ragazzino che guarda in TV le immagini dell’attentato e scopre la morte del fratello attraverso l’orologio da polso regalato dal nonno, che sbucava sotto il lenzuolo bianco. Avvertiamo il dolore muto e piagato della madre di Raffaele. Sentiamo il sogno infranto di chi sperava che Moro diventasse presidente della Repubblica, e invece è diventato a sua volta il fantasma di una stagione infame.
Quello portato in scena da Ulderico Pesce è un dramma narrato in soggettiva, con una naturalezza e una forza insolite nel teatro italiano. «Gli eroi son tutti giovani e belli», cantava Guccini. Qui abbiamo la bellezza e l’eroismo di agnelli sbranati da lupi, e i lupi hanno nomi e cognomi, quelli di personaggi inquietanti come Cossiga e Andreotti.
Il ruolo del giudice Imposimato, che per primo portò alla luce le anomalie nelle indagini, è un altro elemento fondamentale. La denuncia delle incongruenze che hanno caratterizzato la gestione del caso Moro (indagini ritardate, la creazione di nuovi organismi di polizia come l’UCIGOS, la smantellamento dell’Ispettorato antiterrorismo) evidenzia come l’intero processo non sia stato solo una tragica serie di eventi, ma anche il frutto di un intricato gioco di poteri che hanno agito dietro le quinte.
La domanda centrale che lo spettacolo pone è: quanta parte dello Stato ha contribuito a queste morti? Se la versione ufficiale ha puntato il dito sulle Brigate Rosse, Pesce suggerisce che Moro e la sua scorta sono stati vittime di un piano molto più grande, che ha visto nell’eliminazione di Moro una necessità politica, per fermare un dialogo con la sinistra che avrebbe potuto cambiare il corso della storia italiana.
In un momento storico in cui la memoria collettiva del paese sta affrontando un recupero critico del passato, questo spettacolo non si limita a raccontare una tragedia, ma la ripensa come simbolo delle forze che operano nell’ombra per mantenere l’ordine e proteggere gli interessi di chi detiene il potere. La figura di Moro, rappresentato come l’uomo politico tradito e sacrificato, invita alla riflessione sul ruolo dello Stato, sulla giustizia, sulla memoria storica.
La scelta di mettere in scena questo dramma in un contesto teatrale è anche un atto di responsabilità civile, perché invita un pubblico anche di giovanissimi a non accogliere la narrazione ufficiale come unica verità, ma a scavare sotto la superficie.
È questa l’arte che ci piace. E che giustifica alcune licenze poetiche nella biografia di Ciro Iozzino e di Adriana Zizzi (sorella di Franco), che qui Pesce rappresenta come quindicenni, mentre nel ‘78 avevano qualche anno in più.
MORO: I 55 GIORNI CHE CAMBIARONO L’ITALIA
Scritto da Ferdinando Imposimato e Ulderico Pesce
Interventi in video del giudice Ferdinando Imposimato
interpretato e diretto da Ulderico Pesce
Produzione Centro Mediterraneo Delle Arti
durata: 1h 10’
applausi del pubblico: 3’ 30”
Visto a Milano, Teatro Menotti, il 13 novembre 2024