Mulinobianco di Babilonia Teatri: la distruzione del mondo alla prova della scena

Il cimitero di Mulinobianco (ph. Sara Castiglioni)
Il cimitero di Mulinobianco (ph. Sara Castiglioni)

Back to the green future. In scena i figli di Raimondi e Castellani: verso quale domani?

Se c’è un tema a prima vista univoco, su cui è difficile permettersi giravolte, è quello del riscaldamento globale, della questione ambientale, una cappa nera che incombe, a volte letteralmente, e che sembra impossibile forare per far filtrare qualunque sorta di luce.

Dopo averla citata, attorno all’arcinota sentenza di Chico Mendes sul rapporto tra ambientalismo e lotta di classe, si aggirava, tutto intento al suo evitamento, l’acuto “Darwin inconsolabile” di Lucia Calamaro, impegnato soprattutto, attraverso i suoi brillanti mezzi di scrittura, a operare torsioni, miscele psicologistico-borghesi da adagiare sulle ipertrofiche (e impotenti) identità dei personaggi – ma chissà che l’intera operazione non fosse invece una dimostrazione tecnicamente “per assurdo” della suddetta sentenza, che mostra di scalzare per, invece, confermare quella verità.

Più a fondo riesce ad andare “Mulinobianco” di Babilonia Teatri, in scena al Teatro India di Roma, tentando il contropiede, l’inquadramento inatteso del tema.
Nel lavoro l’argomento ambientale, come suggerisce il sottotitolo “back to the green future“, è tutt’altro che sullo sfondo, tutt’altro che evitato nella sua urgenza e nelle conseguenze che prefigura. Esso rimane centrale, ma via via che le scene si dispiegano, la scrittura tagliente del duo prova a tendergli tranelli, a sorprenderlo allo specchio, a chiuderlo nell’angolo, a farne salire la temperatura e il voltaggio fino al livello dell’assurdo.
Lo fa scena per scena, monologo per monologo, in una struttura – la loro, ben nota – fatta di pezzi staccati ma appunto concentrici, con degli strumenti che sono, come si vedrà, ora quelli del monologo asciutto ma denso, stentoreo ma dubitativo, colorato dalla inconfondibile prosodia a cui ci hanno abituato, ora della costruzione scenica oggettiva.

In scena stavolta sono i figli della coppia formata da Enrico Castellani e Valeria Raimondi, i giovanissimi Ettore (già presente in “The end” e centrale in “Jesus“) e Orlando: l’uno più compìto, come i fratelli maggiori sanno essere, giudizioso anche nelle follie, l’altro più spavaldo e lucignolesco, srovesciato in un inchino finale parodistico, addirittura tronfio del piacere del palco, di quella libertà programmata ma gratuita che il teatro gli concede – e magari dell’assenza giustificata da scuola!

Eccoli entrambi in mutandine da bagno in un mondo post-disastro climatico, dove la natura ha dilagato e si è ripresa gli spazi delle città, dei centri commerciali e dei loro immensi parcheggi: ma è la playstation che i due rimpiangono, i distributori automatici di merendine, gli spazi (in)contaminati di un enorme Decathlon. La natura che ha ripreso il controllo, in un immaginario post-apocalittico, recentemente rinvigorito dalla serie su Chernobyl, dà loro un prurito insopportabile su tutto il corpo, e nessuna riorganizzazione della società, nessuna infanzia di regime si instaura, come toccava ai piccoli naufraghi del “Signore delle mosche”, scatenando violenza e istinti insopprimibili. Qui i figli, i nipoti di un mondo disinteressato alla pur minima cultura della vita sociale, digiuni di ogni bisogno ordinatore, si limitano, nell’amarezza della nostalgia, a puntare a una mela penzolante forse da un albero, forse dallo stand superstite di un qualche supermercato, incapsulata in una busta sottovuoto. Immagine dolorosa e insieme rapido scarto di punto di vista, sintomatico del modo di operare di Babilonia Teatri, sul tema dell’uso della natura oggi, sulla sua idea nella mente dell’uomo contemporaneo: che rapporto ha la natura con gli immensi frutteti geometrici per la produzione di mele, si chiedono, allargando quello spunto.

Questo riposizionarsi rispetto al tema, ribaltandolo in prospettive sempre diverse, è operato attraverso due strumenti apparentemente antitetici: ora la segmentata, paradossale facondia della compagnia veneta, ora gli ingressi nel silenzio dell’immagine, nell’installazione, nella scena materiale carica di tutto il suo potere rivelatore.
Un esempio di quest’ultima è nella bellissima scena dei due ragazzini che, ancora in costume da bagno e con variopinti zaini scolastici sulle spalle, si arrampicano su due alti banchi (due Eros, due putti, due selvaggi buoni, due incendiari?) e da lì scagliano con gesto facile ma efficace fiori di plastica sul palco, germinando in pochi minuti un campo fiorito artificiale ma bellissimo, che si estende fino ai loro piedi, circondandoli; o il finale, nel quale liberano dall’imballaggio un’enorme vacca abbigliata all’americana, con tanto di scarpe sportive e canottiera che, anziché immergere il naso nell’erba, lo tiene incollato a un pallone da basket. Un bambino stretto al ventre, l’altro al dorso dell’animale, si lasciano bagnare da un controluce lentamente calante, che allunga le loro ombre fino in platea e scalda questa sorta di abbraccio con una inquietante alma mater.

Un esempio della parola usata con la ben sperimentata laconicità è nella scena delle morali: sette insegnamenti, pronunciati da Ettore e anche proiettati su uno schermo verticale simile al display di un cellulare, sette paradossi in cui la morte e tutto ciò che le compete si mostrano come precipitati di una tradizione di cultura e di senso gettata nel tritacarne della contemporaneità, con i suoi collant di lycra indistruttibili e le casse da morto a tenuta stagna, che separeranno per sempre il corpo del defunto dalla polvere a cui dovrebbe, biblicamente, tornare.
Il tema della morte, della solubilità della materia, persino dell’impossibilità di non restare è messo anche alla prova della scena muta: i bambini guidano due automobiline elettriche, con le quali travolgono impietosi un camposanto di croci di plastica, fatte con i mattoncini Lego.

È la scena, anzi la prova della scena in senso lato, il suo specifico campo di battaglia a consentire a “Mulinobiando” di aprire qualche spiraglio in quella nera cappa che si diceva; con efficacia, assiduità e coraggio, senza suggerire particolari vie all’azione concreta, senza riuscire ad insufflarvi urgenza, senza insomma toccare veramente terra – ma c’è ancora qualcuno che pretende queste cose a teatro?
In un palco retto con severissima democrazia, in cui tutto, luci, musica, elementi scenici, parole, corpi di adulti (che intervengono solo per spostamenti tecnici) e bambini (strumenti vivissimi, punto di fuga, non soli attori dell’operazione) sottostanno a un’unica legge, cui non spaventa nemmeno il risultato di un paradosso o di un assurdo: quella del ragionamento scenico, dell’ipotesi scenica, della dialettica scenica.

MULINOBIANCO back to the green future
di Enrico Castellani e Valeria Raimondi
con Ettore Castellani e Orlando Castellani | e con Valeria Raimondi, Enrico Castellani, Luca Scotton
luci, audio, direttore di scena Luca Scotton, Vfx video Francesco Speri
foto Sara Castiglioni
produzione Babilonia Teatri e La Corte Ospitale, coproduzione Operaestate Festival Veneto
in collaborazione con Dialoghi – Residenze delle Arti Performative a Villa Manin 2021

durata: 50′

Visto a Roma, Teatro India, il 30 gennaio 2022

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