Natura Dèi Teatri. Le contaminazioni di Lenz Rifrazioni da Verdi a Manzoni

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Il Re Lear di Lenz Rifrazioni (photo: Francesco Pititto)|Alessandro Berti
Il Re Lear di Lenz Rifrazioni (photo: Francesco Pititto)
Il Re Lear di Lenz Rifrazioni (photo: Francesco Pititto)

Un festival che accade per costruire, ricercare e ricostruire di nuovo. 
È lo spirito che accompagna Lenz Rifrazioni nella diciannovesima edizione di Natura Dèi Teatri, andata in scena negli spazi post industriali del Teatro Lenz di Parma a dicembre, e terzo capitolo di una trilogia concettuale dedicata alle opere di Gilles Deleuze. 

Espressamente dedicato alla cultura performativa contemporanea, e contraddistinto da una radicata attenzione all’interdisciplinarietà, Natura Dèi Teatri ha aggregato per dieci giorni multiformi visioni e identità, in una caleidoscopica e internazionale proposta di riflessioni sui mutevoli linguaggi delle arti visuali. Proposte radicali, estreme a volte, stratificate nello spaesamento, prospettive inquiete e concettualità acrobate, e pur sempre rigorosamente poetiche, proiettate verso un’incauta curiosità e solida intelligenza. I Due Piani come titolo della rassegna, e come strumento per sondare una duplicità creativa che mette in opera due livelli di incontro/scontro, memoria e tempo presente come generatori di potenziali differenti tra l’evidente e l’inespresso.

Il festival è stato l’occasione per il debutto di due nuovi lavori di Lenz Rifrazioni, “Verdi Re Lear_L’opera che non c’è” e “Adelchi”. 
“Re Lear” è il primo studio di un’opera che vedrà la sua forma definitiva nell’ambito del Verdi Festival del 2015. 
Concepito in collaborazione con il musicista elettronico Robin Rimbaud e il Conservatorio di Musica di Parma, è una ricerca drammaturgica, musicale e visuale su un opera incompiuta di Verdi, mai musicata seppur esista il libretto scritto da Antonio Somma. 
“Adelchi” è invece il secondo lavoro legato al progetto biennale dedicato ad Alessandro Manzoni, iniziato la scorsa stagione con “I Promessi Sposi”. 

I due spettacoli sono impreziositi dalla presenza scenica di attori con sensibilità psichica, formati dai laboratori permanenti che Lenz conduce in collaborazione con il Dipartimento Assistenziale integrato di Salute Mentale, collaborazione pluriennale e cifra stilistica caratterizzante di molti lavori del teatro diretto da Maria Federica Maestri e Francesco Pititto. Ed entrambi sono innestati in un ambiente scenico frazionato da teli quasi impalpabili che ospitano l’apparire di suggestioni virtuali, dove gli spazi suddividono i simulacri espressivi degli attori, in un percorso spettrale che disseppellisce gli echi e i frammenti più profondi delle materie misteriche che convergono nelle opere dei capisaldi della musica e della letteratura italica. 

Ma mentre in “Re Lear” la rilettura naviga verso la ricerca e la sperimentazione di una reinvenzione della taciuta aspirazione creativa verdiana, disseminando nella narrazione anche testimonianze concrete eseguite da cantanti lirici, in “Adelchi” l’esperienza si fa più introspettiva, più intimamente incomunicabile. E la tragedia manzoniana diventa sintomo di una duplicità quasi mitologica, l’urgenza di un ritiro ascetico che possa dissolvere il dramma da una parte, e la necessità umana di affermare e dispiegare la propria presenza fisica ed estetica.

Un ulteriore arricchimento al festival è stato dato dal contributo di Enrico Pitozzi, docente di Forme della Scena Multimediale presso il Dipartimento delle Arti dell’Università di Bologna e autore di diversi scritti sulla scena performativa contemporanea, che ha condotto un seminario sui processi in atto sulla scena audiovisiva contemporanea e un dialogo a più voci tra gli artisti intorno a Re Lear, esaminando la ridefinizione sui processi compositivi e di pensiero che l’introduzione delle tecnologie nel mondo delle arti ha apportato alle forme visibili e sonore.

Sempre in ambito di sonorità Natura Dèi Teatri non ha mancato di concedere un elaborato excursus nella musica elettronica e sperimentale, proponendo i live set di Andrea Azzali, storico creatore delle musiche di Lenz, in “Corpo Sacro”, appositamente traslocato negli spazi di una chiesa seicentesca, e la collaborazione artistica traPaul Wirkus, acclamato compositore di origine polacche dedito alla fine improvvisazione minimalista, e lo stesso Lenz Rifrazioni, in “Hyperion/Diotima”, lavoro ispirato al romanzo epistolare di Friedrich Hölderlin, drammaturgo tedesco a cui Lenz ha dedicato ai suoi esordi un lunghissimo percorso di ricerca. Proposte musicali dove comunque l’intreccio tra composizioni sonore e performance è sempre sedimentato in un confine espanso e contaminante.

Alessandro Berti
Alessandro Berti

La stessa chiesa seicentesca che ha accolto le ispirazioni musicali di “Corpo Sacro” è stato anche il luogo doveAlessandro Berti ha dato vita al suo “Maestro Eckhart”, spettacolo che si differenzia nitidamente dalla vocazione performativa del festival in quanto trattasi di puro teatro di narrazione, ma anche se inaspettato si amalgama abilmente con l’intento evocativo e suggestivo dell’impronta della rassegna. 

“Maestro Eckhart” vede Alessandro Berti indossare i panni di un monaco per prodursi in un elegante sermone sull’incontro col divino, una lezione di vita spirituale dove con semplici gesti rituali e liturgici si affrontano temi sacri come fede, verità, il rapporto uomo-donna. Alternando stornelli salmodiati e racconto si entra in simbiosi con una figura quasi paterna che fa del suo corpo un veicolo di saggezza e misticismo, e riesce a incorporarsi in un dialogo viandante tra contesti di spazi urbani industrializzati e le scritture anch’esse visionarie del teologo medievale tedesco.

Unico attore italiano invitato al festival, Alessandro Berti fa da contrappunto alla agguerrita pattuglia di artisti internazionali come Maguy Marin, Pieter Ampe, Tim Spooner e Via Negativa.

Maguy Marin ha curato l’ideazione di “Singspiele”, con in scena il performer David Mambouch, una epifania di individui invisibili, deglutiti dalla instancabile priorità del riconoscimento. Mambouch attraversa una scena murata in un non luogo estraniante vestendo e svestendo gli abiti di un’infinità di volti, intercambiabilmente fissati sul suo viso come un album di fotografie e strappati di volta in volta, rimodulando la sua interpretazione in funzione dello sguardo che temporaneamente si ritrova appuntato in faccia. 
La ballerina e coreografa francese, vera e propria icona della danza contemporanea, mette in scena così una costellazione di mute identità, facendole galleggiare in un incessante marea di anonime geometrie umane, catturandone l’essenza silente per poi amplificarne l’emorragia di sensazioni immateriali.

Il danzatore e performer Pieter Ampe ha affrontato invece per la prima volta un solo in “So you can fell”, forse il lavoro più commovente visto in questo festival. Uno spettacolo composito che riassume in una giostra di provocazioni, istigazioni e spassose esperienze la sostanza magmatica del concetto stesso di presenza scenica, di consapevolezza dell’urto che ha l’agire attoriale sulla percezione di chi osserva. 
Ampe disegna uno straziante viaggio liberatorio impegnandosi nell’estenuante frammentazione della sua figura, istrionicamente declinata in molteplici perturbazioni della personalità, avvolgendo il pubblico nella morsa del suo dissociato potere di intrattenimento, per poi abbandonarlo nella malinconica presa di coscienza della fallace estetica dell’apparenza.

È un’ibridazione elettrica di teatro di figura quella che caratterizza la poetica di Tim Spooner, poliedrico artista che si muove tra pittura e spettacoli dal vivo. In “The Telescope” si osserva attraverso un telescopio rotto che proietta immagini di universi miniaturizzati, artificiose reazioni chimiche si materializzano da un supporto elettrificato che procrea un’idealizzazione di processi naturali eruttati in un accompagnamento narrativo. Un mondo che si riflette e reagisce all’osservazione stessa, l’ipnotica teatralizzazione delle dinamiche dello sguardo.

Chiudono i balli gli sloveni Via Negativa, ben affermato collettivo di artisti che non si vincola alla logica di un ensamble fisso, ma organizza gruppi accomunati da interessi specifici per ogni nuovo lavoro. “On The Righr Track” si rivela come una sorta di equivoco cabaret dove due coristi, Grega Zorc e Vito Weiss, si ritrovano catapultati sul palcoscenico vuoto di un improbabile night club. 
L’assenza del resto della band li costringe a cimentarsi in una surreale performance in cui da gregari si adattano causa forze maggiori ad essere protagonisti, e portano a termine con professionalità il loro programma, che forse esiste e forse no. 
Per quanto sgangherata e poco lucida, la messa in scena rende onore alla grottesca ironia di due clown stralunati, che giocano con l’assurdo e l’improvvisazione come la metafisica gioca con la logica e il reale.

Natura Dèi Teatri ha proseguito anche in quest’edizione il suo cammino con una originale progettualità e rigorosa ricerca creativa, proteggendo le sue poetiche dal facile consumo come dalla marginalità autoindotta. Scelte difficili e spesso a rischio di derive troppo autoreferenziali, ma sempre intense e sostanziali nella loro coerenza e onestà intellettuale.

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