Ne(x)twork e la tentazione di cadere nella rete dell’intrattenimento

Kilowatt ha presentato la prima edizione di Ne(x)twork
Kilowatt ha presentato la prima edizione di Ne(x)twork
Kilowatt ha presentato la prima edizione di Ne(x)twork
Il Teatro Orologio di Roma ha ospitato nelle scorse settimane, con formula insolita e vincente, la fase finale del bando Ne(x)twork, organizzato in collaborazione con Kilowatt Festival e proposto con tre appuntamenti notturni “Coffee and Short”.

L’ingresso libero, l’orario insolito (a partire dalle 23 del sabato di tre week-end), un luogo teatrale che sembra essersi rivitalizzato grazie alla nuova gestione affidata a Fabio Morgan, e una certa convivialità e prossimità tra organizzatori, compagnie e spettatori, hanno fatto di questo evento un’occasione tanto riuscita dal punto di vista della partecipazione (la rete virtuosa sperata), quanto – a parere di scrive – demoralizzante e riduttiva per la selezione dei progetti scelti, tra compagnie che, secondo il bando, “operano con finalità professionali nel teatro contemporaneo, nella danza e nella performing art”.

Una descrizione che, nei fatti, è sembrata ridursi ad un’idea di teatro legata soprattutto ai più ovvi e popolari versanti dell’intrattenimento di stampo socio-narrativo, tra gli altri indicata da un lato dalla parodia sull’orlo del demenziale (“Radiologo con cesta di frutta” di Vico Quarto Mazzini), la leggerezza muta (“Iperrealismi” di Helen Cerina) o la sospensione metafisica (“T/Empio – Critica della Ragion Giusta” di Carullo/Minasi); la rivisitazione dell’immaginario fumettistico infantile (“Save the world” di Leonardo Diana) e il monologare brillante (“Potevo essere io”, della Compagnia Dionisi); dall’altra da quell’umiliar ancora il ruolo dell’attore interpretando i bassifondi degradati della civiltà (“Battuage” di Vucciria Teatro; “A_Merica” di Francesco Romengo).
Fra le altre proposte selezionate per le tre serate, anche Cie Twain, Matteo Latino, Macellerie Pasolini, quotidiana.com e The Avengers.

Tra le 225 proposte arrivate, segnale evidente che i 10.000 euro in palio sono un capitale più che ambìto in questa disperata congiuntura economica, le dodici compagnie prescelte per le serate finali hanno proposto i loro lavori ancora in fase di studio, per una durata di 20-30 minuti, e nell’essenzialità scenotecnica che un rapido susseguirsi di spettacoli diversi per forza necessita.
A scegliere il vincitore un gruppo-giuria di venti spettatori appassionati di teatro ma non “addetti ai lavori” (tra di loro un avvocato, un architetto, un maestro, una sindacalista, un autoferrotranviere e molte altre professionalità) che, seguendo il format dei Visionari di Kilowatt, ha scelto in autonomia lo spettacolo vincitore.

Queste “realtà emergenti della scena contemporanea italiana” sono sembrate però emergere da un’idea stantia e rassicurante di messa in scena, barcamenandosi tra il serio e il faceto, ed eseguendo il loro compito nei canoni standardizzati dei generi, inclini al consenso della risata o all’approvazione dell’impegno civile.

“Potevo essere io”, il progetto vincitore della Compagnia Dionisi è un intrattenimento brillante sull’orlo del sarcasmo, come tipico della compagnia milanese (autrice delle famose “Serate bastarde”), adeguatamente eseguito da Arianna Scommegna come narrazione di un’infanzia difficile e tragicomica.
E’, a rigor di logica, il giusto vincitore per adesione ai parametri già succitati di pop(olarità), piacevolezza, equilibrio e un inoffensivo mix di gioie e dolori (ovviamente surrogate nel racconto in prima persona, con esibizione d’un virtuosismo di stampo quasi televisivo). La resa estetica è nell’“abbiamo bisogno dello spettacolo di narrazione, che ci raccontino delle storie perché abbiamo paura di viverne di nuove in prima persona”.

Nelle serate di Ne(x)twork è mancato l’avvistamento di un istante di luce sensoriale o intellettiva, qualcosa che accade davvero in quel dato frangente spazio-temporale, contro il predominio imperterrito del racconto di fatti ed eventi già stati o, ancora peggio, la ricaduta nella rappresentazione della vita d’altri. La differenza che c’è tra il divértere e il divertire.

Per questi motivi le polemiche nate a seguito dell’assegnazione del premio alla Compagnia Dionisi, ritenuto in odor di truffa poiché in scena con un progetto di spettacolo non inedito (come richiesto da bando) avrebbero avuto più senso se indirizzate a un discorso sulla forma e lo spirito del progetto stesso, e non – senza entrare nel merito della ragione o del torto dei contendenti – semplicemente sul cavillo legale impugnato da chi è affamato e vuole spolparsi l’osso. Ricordandosi che, nelle reti, oltre a trovar soccorso reciproco, nel consenso generale, ci si può anche mortalmente impigliare.
 

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11 Comments

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  1. says: roberto scappin

    Tu hai avuto la fortuna di trovare piaceri furtivi tra uno spettacolo e un altro io neanche quelli leggendo i tuoi nessi sintattici. Puoi portalo in sala nelle tue peregrinazioni teatrali quell’osso femorale e al caso (spesso immagino) autopercuoterti per avere la certezza dell’illuminazione. Cercherò di fare lo stesso anch’io, non tanto per il desiderio del lume quanto per far rinsavire i pochi spettatori illuminati.

    Se poi fai fatica a spolpare l’osso non accanirti, un cric, una mazza da baseball, un martello vanno comunque bene. Peccato che non hai dedicato il tuo scritto ai cambi di scena probabilmente la mia aura ne avrebbe giovato. Credo che non esista osso a sanare gli ostentati bassifondi dell’io.

  2. says: Salvatore Insana

    non mi considero per niente fantasioso e soprattutto in nessun caso in grado di comprendere un commento nel quale non trovo altro che un desiderio di presenziare senza argomentare (che senso ha commentare con un “non so come commentare”?)

    per il resto mi sembra d’aver abbastanza allargato il discorso, aldilà dell’espressione “occasione demoralizzante e riduttiva”, anche più lontano del giochetto dell’ovvia buona fede di tutti. Cosa sarebbe demoralizzante, l’incitazione a fare di più, l’ammissione di non aver trovato “abbastanza”?

    (un saluto a Roberto Scappin che con quel suo feroce osso ha colto in pieno quel che intendo per “illuminazione”, aggiungendo che di piaceri furtivi ne ho trovati in quei giorni, soprattutto nelle pause tra uno spettacolo e l’altro, negli intralci imprevisti che il tecnico di sala procurava al discorso di presentazione-riflessione tra autori e organizzatori…

  3. says: daniele timpano

    comunque, stupidaggini sulla prosa a parte, non sono per niente daccordo con l’articolo. “occasione demoralizzante e riduttiva” è veramente un’espressione, a parte tutto, sul serio demoralizzante e riduttiva… legger queste cose più di tutto mi deprime, in questi tempi già depressi e faticosi…
    non penso di essere un corporativo lobbysta solo a difendere a prescindere il lavoro in buona fede di tanti miei colleghi…

  4. says: daniele

    eh, ma io non mi son depresso… dai, daccordo. Non mi impiccio se non ho voglia di andar a fondo e contribuire davvero alla discussione… ma comunque mi riferivo non solo alla tua prosa ma al burocratico luca e al fantasioso Insana…

  5. says: roberto scappin

    Potevi evitare anche questo di commento. Non mi preoccupo di non averti accontentato con una prosa di tuo gusto. Le parafrasi scontate deprimono, te ne do un’esempio… ma come leggi? = =

  6. says: daniele timpano

    Non so come commentare… perplesso, dall’articolo, come pure dalle risposte, come pure – e soprattutto – dallo stile della vostra prosa… ma come scrivete?? 🙂

  7. says: roberto scappin

    Divertente Insana,
    Capita anche a me di stancarmi subito a teatro di fronte al deja vu sincretico delle memorie di stampo socio-narrativo, se poi l’attore si umilia battendo i bassifondi della civiltà, mostrando il proprio infantilismo estetico scambiato per generoso contributo all’umanità, siamo ancora purtroppo come dice lei in quell’inoffensivo mix di gioie e dolori che propongono una commiserazione inutile.

    Mi lavo la coscienza con questo discorsetto da insoddisfatto e lei fa lo stesso. Io saprei come farle avvistare per un istante quella luce sensoriale e intellettiva che tanto desidera, facendole calare sulla testa, attraverso lo stantio canone di genere, l’osso spolpato che lei cita, risolvendo in maniera efficace il semplice cavillo. Immagino che lei intendesse l’osso femorale così da divertere dalla questione. Spero che la bastonata abbia il giusto tiro. Credo che sia un bene mettere in scena la peggior vita di se stessi. Cosa vede ora oltre l’orizzonte?

    L’elenco di sintagmi analitici non ha nulla a che fare con la conoscenza, il riassuntino sui lavori che ne ha fatto Luca intendo. Le menzogne dell’artista non migliorano la vita a nessuno. Lei passeggia sul bordo dell’equivoco evidenziando i suoi limiti, cerchi di scuotersi e non precipitare. Il teatro continua ad essere piacere furtivo, eccitazione momentanea.

    Qualcuno chiama buon senso, insindacabilità, direzione artistica quello che gli conviene. La poesia la condivido, se mai fosse possibile questa condivisione, con un’altra persona nella vita quotidiana visto che a teatro è solo finzione.

    La dialettica è la fuga delle idee, una shockezza alle volte insaporita dall’osso..
    Quando la polpa finisce non si accanisca e non dia più credito all’abitudine.

    un saluto dilettoso organico
    roberto scappin

  8. says: Salvatore Insana

    Gentile Joele, grazie per la reazione e mi spiace esser caduto nel “non lecito”. Non mi arrogo di poter giudicare nessuno. Non mi sembra di aver mai scritto di soubrette di ultima categoria. E la mia frase da lei citata rimane in ambito di discorso teatrale-artistico, il lato umano e “personale” non lo conosco, certo. In teatro ho visto quello che c’è davanti, non ciò che rimane dietro (nel privato). Quindi nessuna intenzione di offendere. Verrò a vedere, se possibile, il lavoro nella sua interezza, così da poter approfondire con più delicatezza.

    a presto

  9. says: Joele Anastasi - VUCCIRìA Teatro

    Gentile Salvatore Insana, in altri casi non avrei preso l’iniziativa di rispondere ad una “critica”, positiva o negativa che sia, attraverso questi mezzi. Ognuno ha il suo compito e noi che stiamo da questa parte del palco abbiamo a sufficienza la nostra possibilità di parlare attraverso il nostro operato in scena che deve parlare per noi. Ma non posso resistere in questo caso perchè mi sembra che ci allontaniamo parecchio dal tracciato lecito. Non solo concordo con Luca Ricci nel trovare incredibile la sua affermazione circa l’umiliazione della figura dell’attore che ha intravisto nel nostro lavoro, ma ancora di più trovo incredibile ed assurda la sua ulteriore risposta!

    “tanto per legittimarsi attori e raggiungere un certo grado di autostima e consenso”.

    Trovo questa sua affermazione gravissima e francamente altamente cattiva ed immotivata. Lei come spettatore-critico-fruitore ha tutto il diritto di commentare circa il lavoro presentato dalla mia (o dalle altre, è uguale) compagnia, di esprimere un gusto positivo o negativo che sia, ma se questo rimane all’interno dei tracciati della creazione artistica. A quel punto troverò piacevole leggere una critica, sia che essa esalti il mio lavoro o ne riveli dei punti deboli. Ma lei va molto oltre. Come se mi conoscesse personalmente, si arroga il diritto di poter giudicare non l’ operato ma l’artista che c’è dietro, (tra l’altro non credo neppure che abbia elementi a sufficienza per farlo) appellandosi nei miei confronti e nei confronti di qualche altro collega (lei appunto cita vuccirìa e romengo ) come ad una soubrette di ultima categoria (e con rispetto delle soubrette!!). Ancora faccio fatica a credere a quello che ho letto!
    Ora io le assicuro che non ho nessun motivo nè per legittimarmi attore, nè devo rendere conto a lei o a chicchessia circa la mia autostima o consenso! Del resto le assicuro che se avessimo bisogno di psicologi ci rivolgeremo in quel caso a degli esperti, nè tantomeno riesco a capire da cosa abbia dedotto queste conclusioni così personali circa i motivi che ci spingono al teatro tanto da intravederne un delirio esibizionistico ed egocentrico.
    Pertanto come io prendo il buono di molte altre cose, intelligenti, che scrive, lei faccia molta attenzione a quello che, forse troppo istintivamente, scrive. Davanti e dietro tracciamo dei segni indelebili, a volte belli o brutti. Ma attenzione perchè ci deve essere coscienza sempre da entrambi i lati che stiamo giocando con qualcosa di molto fragile, che è il materiale umano.

    A presto, e con tanta disponibilità ad approfondire!

  10. says: Salvatore Insana

    gentile Luca Ricci, una risposta disorganica.

    Quello dell’umiliare il “ruolo” era il frutto di una riflessione (per altro questione portante del Valle Occupato di RezzaMastrella) legata a quel circolo virtuoso/vizioso che fa mettere in scena la vita di chi sta peggio di noi tanto per legittimarsi attori e raggiungere un certo grado di autostima e consenso. Poi è chiaro che son dalla parte di Zola, non me ne importa niente di difendere un qualsivoglia “decoro” teatrale o culturale, né di valorizzare l’attore o il suo fantomatico ruolo.

    Cerco di agire nel ri-vedere e ri-pensare le opere chi “attraversano” con tutto l’irrispetto che mi spetta in quanto proprietario di un gusto estetico che prescinda dalla qualità professionale (di cui sono consapevole) degli attori e degli altri addetti ai lavori.

    È mio compito aggiustare il tiro, se vuole. La superficialità è necessaria per non indursi in empatia con ciò che devi in qualche modo giudicare o re-visionare, se non si vuole restare sempre anche in quest’ambito nell’informazione e nella didascalia. Prima o poi se approfondisci e entri nel merito di un tale o di un tal altro progetto scovi una buona volontà ideativa, creativa, tante forze messe in campo, sacrifici, rinunce, passioni, etc. e facendo così ti dimentichi con facilità di allargare il tiro e guardare oltre l’orizzonte.

    È mio compito passeggiare sull’orlo dell’equivoco, per scuotersi, anche pro-vocando qualche reazione che vada oltre l’ovvio consenso della sala piena.

    Quando parlo di “riduttivo” mi riferisco ancora alla larghezza del cortile nel quale ci si trova. Quello che ho visto mi è sembrato rientrare tutto in uno stesso frammento di mondo teatrale, un mondo che, per quel cerco in questo momento, non mi “appassiona”. Ma è vero che ogni selezione parte da un gusto (o da una idea) per forza soggettiva.

    Quando sono lì (in teatro o in altro spazio nel quale metto alla prova me-stesso come spettatore-fruitore) ho bisogno di ricevere degli shock, sensoriali o intellettivi, e non ne ho trovati in queste giornate. Tutto qui. Riconoscendo ancora, come lei accenna, l’abilità interpretativa di Arianna Scommegna o l’essenziale delicatezza del gesto del lavoro di Helen Cerina o ancora la sospensione dello spazio-tempo di Carullo/Minasi.

    il de-moralizzarsi è nello sperare quello che non trovo e nel non trovare quello che spero. (poi si sa che non c’è niente di cui si dovrebbe sperare…)

    E son molto d’accordo con lei nel reputare che il grado di “intrattenimento” di Ne(x)twork è ben poca cosa rispetto all’inflazionatissimo e rovinoso mondo dei teatri stabili.

    a presto e grazie per la passione

    con disponibilità ad approfondire

    buona resistenza teatrale

  11. says: Luca Ricci

    Gentile Salvatore Insana,
    come con-direttore artistico di questo progetto mi sento chiamato in causa a intervenire sulle sue osservazioni. Non tanto per difendere il mio lavoro del quale sono contento che lei riconosca l’efficacia, scrivendo di una “formula insolita e vincente”, quanto per riflettere assieme a lei sullo stato della creazione di quelle compagnie emergenti alle quali il bando si rivolgeva.
    Trovo profondamente ingiusto il suo giudizio complessivo su quanto abbiamo visto a NeXtwork. Più di tutto trovo incredibile la sua precisazione che certe compagnie abbiano “umilia[to] il ruolo dell’attore interpetando i bassifondi degradati della civiltà”. Perché, secondo lei si valorizza il lavoro di un attore soltanto se gli si fa intepretare un personaggio che siede in un salotto a disquisire di filosofia con una chicchera in mano…? Probabilmente la frase le è uscita dalla penna nel suo impeto distruttivo e su certi spettacoli non ha trovato nulla di più polemico da scrivere… Caro Insana, la voglio tranquillizzare: nessun attore si sente umiliato nell’interpretare personaggi che provengono “dai bassifondi”, sono ben altre le cose che umiliano gli attori, oggi. Più o meno la sua considerazione sta al livello di quelle dei critici che contestavano Zola dicendo che le sue opere erano brutte perché mostravano il lato oscuro della società francese. Dell’Ottocento, però… Speravo che nel 2013 fossimo andati un po’ più avanti.
    Ma venendo al panorama che è emerso nelle tre serate di NeXtwork davvero non capisco come lei possa parlare di “occasione demoralizzante e riduttiva”, di “idee stantie di messa in scena”, di “eseguire i compiti nei canoni standardizzati”. Non me ne vogliano quelli che non citerò, ma francamente faccio davvero fatica a seguirla quando penso allo spettacolo di Helen Cerina che riflette in maniera acuta e intelligente sulla contestualizzzazione e decontestualizzazione del gesto, allo spettacolo di Matteo Latino che ci mostra uno spaccato di verità doloroso e inquieto nel quale l’attore-autore si mette a nudo con coraggio e onestà, allo spettacolo di Dionisi che grazie alla penna di Renata Ciaravino e all’intepretazione di un’attrice gigantesca come Arianna Scommegna dosa sapientemente rabbia e ironia per raccontare un tema scivoloso come l’infanzia, allo spettacolo di Carullo/Minasi così astratto e insieme concreto, visionario e folle da portare sulla scena l’Eutifrone di Platone, alle parole riverberanti del poeta greco Kavafis messe a confronto con la crisi sociale della Grecia di oggi nello spettacolo di Macellerie Pasolini, alla poesia delicata di chi come Leonardo Diana gioca con i miti dei supereroi che molto hanno a che fare col nostro presente di individui costretti a fornire prestazioni che rispondano a standard sempre più elevati, ecc ecc ecc
    Tutto questo le sembra intrattenimento?
    A me no.
    A me sembra piuttosto il segno di una generazione di artisti che si fa totale carico delle sfide del proprio tempo, che le rilancia con fantasia poetica e con slancio ideativo, che cerca soluzioni sceniche a volte efficaci, a volte meno efficaci, ma mai consolatorie, e soprattutto mi sembra il segno di una generazione che ha finalmente capito che l’orizzonte della creazione non sono i vuoti formalismi estetici ma la società, il nostro tempi, in una parola, il mondo.
    Tutte questo alcune volte ci ha fatto ridere?
    E’ davvero così grave…!?
    Vada nel 90% dei teatri stabili italiani finanziati coi soldi pubblici dei contribuenti, e poi riparliamo di chi fa intrattenimento!
    Mi scusi la vivacità dello sfogo, ma non è tanto sul progetto che ho diretto io che mi sentivo attaccato (su quello non sono io a dover dire), quanto su una riflessione complessiva legata agli sforzi creativi che molti artisti stanno facendo, e con ottimi risultati, pur in un contesto sociale ed economico che dire penalizzante è poco. E questi risultati non meritano di essere umiliati dalla sua sufficienza, quella sì “riduttiva e demoralizzante”.