Dai grandi maestri come Abbondanza/Bertoni agli artisti emergenti, uno sguardo alla settima edizione della vetrina
Per gli operatori della danza, per le compagnie e gli osservatori che, come noi, amano la danza contemporanea, la NID – New Italian Dance Platform si è sempre caratterizzata come un momento importante durante il quale poter fare il punto sulla situazione di questo particolare comparto dello spettacolo dal vivo del nostro Paese, cercando di osservarne in pochi giorni alcune delle sue creazioni migliori, scelte da un’apposita e competente commissione.
Dopo essere stata programmata in diversi luoghi, da Brescia a Salerno, da Reggio Emilia a Gorizia e Cagliari, la settima edizione di questo appuntamento che riunisce tutto il sistema della danza italiana, dal titolo esemplificativo “Get back to Dance”, si è svolta a Vicenza, dove siamo stati presenti i primi tre giorni, di cui vi parliamo oggi.
Durante la kermesse, organizzata con grande cura in tutti suoi aspetti dalla Fondazione Teatro Comunale di Vicenza, sono stati presentati 14 spettacoli e una cospicua selezione di Open Studios, durante i quali è stata offerta, sia agli artisti emergenti che alle compagnie affermate, la possibilità di presentare progetti coreografici in via di sviluppo.
La nostra curiosità il primo giorno è stata accesa soprattutto da due coreografie: “Femina” di Abbondanza Bertoni e “Stuporosa” di Francesco Marilungo, ambedue con in scena un cast completamente al femminile.
“Femina”, spettacolo proposto da Antonella Bertoni, è un vero viaggio nell’universo femminile, interpretato da quattro giovani danzatrici: Sara Cavalieri, Eleonora Chiocchini, Valentina Dal Mas e Ludovica Messina Poerio, che si trovano davanti ad un difficile percorso coreografico che assecondano perfettamente, e le vede impegnate in una gestualità che non permette loro, nel suo perfetto coordinamento, alcuna sbavatura.
Le performer si presentano, battendosi significativamente le mani, in lingerie color carne e bionde parrucche, muovendosi in un contesto scenografico di assoluta semplicità, di un bianco abbagliante, simile a un grande studio fotografico che inonda tutto lo spazio del capace palco del Teatro Comunale. Subito viene in mente la volontà di proporre un prototipo di bellezza e capacità scenica universalmente entrato nell’immaginario di tutti, riconoscendo il caschetto biondo di Raffaella Carrà che durante la performance, complice la musica battente di “Dysnomia” dell’ensemble americano Dawn of Midi, piano piano viene destrutturato.
La coreografia si muove prodigiosamente in un continuo movimento, perfettamente coordinato, finché d’improvviso una delle performer, complice anche un cambio repentino di luci (di Andrea Gentili), tenta di romperne l’unicità, danzando da sola o non avendone più le forze; ma subito le altre, senza imposizione, ne inglobano, con grande empatia, lo smarrimento.
Il femminile si palesa anche con un armonico svestimento e con una doppia metaforizzazione di ordine sessuale, sia coreografico che visivo.
“Stuporosa” di Francesco Marilungo, posto nel bellissimo palcoscenico del palladiano Teatro Olimpico, ci trasporta invece nei meandri della rappresentazione del lutto.
Lo stupore a cui fa riferimento il titolo è un termine che amiamo molto, rispetto anche alla forte sensazione che (purtroppo sempre più raramente) ci possiede in teatro e che intorbidisce i sensi davanti alla bellezza che percepiamo sul palco. Nello spettacolo, questo intimo stato dell’animo che ci scombussola il corpo e la mente è riferito, come abbiamo già accennato, allo stato emotivo indefinibile che ci prende davanti ad un lutto improvviso. Quando subitanee ci sorgono domande senza risposta: come potremmo ora reggere senza di lui, senza di lei, mentre un pianto improvviso ci segna il viso?
In scena cinque donne vestite di nero ci invitano ad una specie di liturgia collettiva su questo intimo mancamento. I costumi e le varie pose delle performer, con quei gesti smarriti, con quell’abbandono dei sensi spesso sorretto dalla pietà di chi sta intorno, rimandano ad una iconografia pittorica che va dal nostro Rinascimento a Goya.
Sarà di Vera di Lecce (anche ottima danzatrice), capace di esprimersi con antichi canti popolari e musica elettronica, il compito di accompagnare nella struggente performance Alice Raffaelli, Barbara Novati, Roberta Racis e Francesca Linnea Ugolini, che spesso condividono con lei improvvisi singulti e bisbigli accorati.
Abbiamo molto apprezzato, intensificato anche in questo caso dalla maestosa cornice del Teatro Olimpico, l’ultimo appuntamento del primo giorno della manifestazione, “Elegia” di Enrico Morelli.
Sulle emozionanti parole di Mariangela Gualtieri, che inneggiano alla tenerezza e all’affezione, innervate dalle musiche di Chopin e Giuseppe Villarosa, quattro coppie di danzatori compongono un intenso elogio all’amore, alla cura di chi ti sta accanto. Senza sovrapposizione di altro pensiero, il nostro sguardo si abbandona solo sui corpi dei danzatori che si cercano e si lasciano, in un susseguirsi di linee e sguardi che rimandano a sentimenti diversificati, con un coacervo di sensazioni in cui lo spettatore può facilmente riconoscersi e abbandonarsi.
Di meravigliosa sostanza soprattutto nella prima parte è “Satiri”, creazione del maestro toscano Virgilio Sieni, che vede in scena Jari Boldrini e Maurizio Giunti, con il prodigioso accompagnamento del violoncello di Naomi Berril.
La coreografia proposta immerge letteralmente lo sguardo dello spettatore in una danza di consistenza sacrale, in una dimensione che rimanda ai misteri di un teatro primordiale.
Le musiche della stessa Berril e di Bach inondano di pura bellezza i movimenti del giovane danzatore e del compagno con la grande testa di capro, movimenti che vengono amplificati di ulteriore splendore attraverso una luce riflessa da una superficie specchiante.
“That’s All Folks!” di Damiano Ottavio Bigi e Alessandra Paoletti ci conduce invece, attraverso una composizione sonora creata da David Blouin, in una performance che si svolge in un non luogo, senza tempo, che si manifesta allo spettatore in un continuo alternarsi di visioni che si innestano in un grande sogno. Qui si muove un quartetto di eccellenti danzatori di diversa provenienza, capaci di mescolarne le diverse atmosfere: lo stesso Bigi con Ching-Ying Chien, Issue Park e Faith Prendergast.
Per alcuni spettacoli di cui abbiamo già parlato in passato, come “Danse Macabre” di Jacopo Jenna (a Danae XXV) e “Le sacre du printemps” di Dewey Well (a Inequilibrio 24), coreografia che abbiamo amato molto, anche perché godibilissima per ogni tipologia di pubblico, rimandiamo ai rispettivi link.
Un discorso a parte merita “Il mondo altrove” di Nicola Galli, di cui avevamo visto la suggestiva versione con quattro performer a Kilowatt 21. Qua a Vicenza, nella preziosa e enorme cornice del salone della basilica palladiana, Galli, anche qui con il viso coperto da una bellissima maschera infiorata, presenta l’assolo site specific che ha lo stesso titolo della performance collettiva. Attraverso un ambiente che evoca mondi intrisi di nuova meraviglia, il performer ci trasporta in un universo diverso dal precedente, non più ancestrale ma inesplorato, tra Occidente e Oriente, corroborato sempre dalla musica di Giacinto Scelsi.
Anche qua la forma scelta risulta una sorta di rituale ma senza tempo, in cui Galli è una specie di satiro danzante, di sacra essenza, che si muove sotto il grande leone d’oro di San Marco che lo sovrasta.
I sei Open Studio che abbiamo visto, coordinati nella discussione con gli artisti da Giulia Galvan, pur non permettendoci di affrontarne una disamina approfondita nella loro dichiarata brevità ancora in via di compimento, ci ha permesso comunque di evidenziarne i caratteri comuni e le particolarità.
“Somewhere” di Lucia Guarino e Ilenia Romano, “Aman” di Emanuele Rosa e Maria Focaraccio, “Segnali di Risonanza” di Ezio Schiavulli sono tre duetti che indagano sulla relazione dei corpi nello spazio. Nel primo, i due performer danzano proponendoci una riflessione sugli ambienti e come ci condizionano; nel secondo Emanuele Rosa e Maria Focaraccio si muovono sullo stesso binario, ma partendo da un altro aspetto: ci mostrano, attraverso la danza, come le norme sociali e culturali, in specifico il maschile e il femminile, la nostra identità insomma, ci influenzano; mentre Schiavulli, in scena con Gabriele Montaruli, con arguzia ci regala tutte le possibili suggestioni dell’effetto farfalla.
Nell’assolo di danza “Se domani” Elisa Sbaragli si domanda invece come ci poniamo davanti alla crisi, che la coreografa ci restituisce nel suo originario significato di scelta.
Di diversa concezione, più esemplificativa e teatrale, sono invece state le proposte “A Human song” di Chiara Frigo, proveniente da Zebra, e “Lacrimosa” di Simone Zambelli.
“A Human song” si configura come una coreografia partecipata, in cui artisti e comunità locali si incontrano per intraprendere insieme percorsi coreografici e umani condivisi. Lo spazio del Ridotto del Teatro Comunale viene percorso prima da immagini poi da presenze umane di tutte le età, di diversi territori, che hanno inteso condividere l’esperienza compiuta per comunicarla al folto pubblico degli operatori presenti.
Infine “Lacrimosa “di Simone Zambelli, che ricordiamo protagonista dello spettacolo e del film di Emma Dante “Misericordia”, ispirandosi a “La morte del Cigno” di Michel Fokine, su musica di Saint-Saëns, si pone in scena nudo arrancando a fatica in mezzo ad un vento gelido. Pone così lo spettatore davanti alla desolazione di un amore perduto e alla speranza per una nuova rinascita.
Come abbiamo visto pur da questa parziale disamina, la danza contemporanea in Italia si nutre di numerose risorse immaginative e di direzioni diversificate che fanno ben sperare nel suo futuro.
Da parte nostra cercheremo di seguirne l’evoluzione, partendo dalla linfa vitale dei più giovani, che da dieci anni seguiamo con interesse a Ravenna nella apposita vetrina di Ammutinamenti. Con un arrivederci a Civitanova Marche per la nuova edizione della NID.