In attesa dell’appuntamento conclusivo di Novo Critico 2010 – che vedrà l‘Accademia degli Artefatti incontrare Andrea Porcheddu in una tre giorni di confronto e discussione – abbiamo incontrato gli organizzatori dell’evento, Elvira Frosini (Kataklisma) e Daniele Timpano (amnesiA vivacE), per raccogliere qualche impressione a bilancio di questa edizione.
Dopo un anno di fermo, quello che era Uovo Critico è tornato a vivere con il nome di Novo Critico. Che cosa c’è stato di “novo” in questa edizione?
ELVIRA – C’è certamente molto di nuovo nell’edizione 2010. La novità più importante è quella che vede la collaborazione con le università di Roma. La collaborazione, fortemente voluta dai docenti di Tor Vergata Donatella Orecchia e Antonio Audino, ci è sembrata il modo migliore di aprire un dialogo con il mondo accademico e quello degli studenti, avvicinandoli al contesto delle compagnie di ricerca e al mondo della critica. Ci siamo resi conto che questo dialogo non è affatto scontato e in certi casi è ancora difficile da stabilire. In Roberto Ciancarelli, docente de La Sapienza, abbiamo trovato grande entusiasmo e curiosità per il progetto. Importante da segnalare è l’attivazione dei due Osservatori critici degli studenti, uno per ciascuna università, che hanno seguito gli incontri, confrontandosi con gli artisti e gli sguardi dei critici e, seguiti dai docenti coordinatori Ciancarelli e Orecchia, si sono cimentati nella osservazione critica dei lavori. Altra novità importante è stata la collaborazione con Krapp’s Last Post, che ha permesso di seguire gli eventi in forma video e con articoli critici e interviste, realizzando una documentazione preziosa per il progetto.
DANIELE – L’altra novità fondamentale è che quest’anno siamo stati finanziati dal Comune di Roma – Assessorato alle Politiche educative, scolastiche, della famiglia e della gioventù. Senza di loro non ce l’avremmo mai fatta: l’assenza di un sostegno economico da parte delle istituzioni è stata la causa principale del naufragio delle nostre fantasie per l’edizione 2009. Speriamo stavolta di riuscire ad avere maggiore continuità di dialogo. Una edizione 2011 sarebbe cosa buona e bella. Sarebbe addirittura buon segno, in questa crisi generale.
E poi ovviamente, oltre alle partership con la Fondazione Romaeuropa e con Rai Radio Tre e alla collaborazione con il sito di E-theatre.it (che sta mettendo on line le riprese integrali delle serate), quest’anno c’è una novità che mi riguarda personalmente, senza la quale non potrei esser qui a rispondere alle tue domande: la sinergia organizzativa tra amnesiA vivacE e Kataklisma.
Che cos’è la “nuova scena performativa”?
ELVIRA – Abbiamo voluto riassumere con questo termine il vario panorama della scena contemporanea, che raccoglie una varietà di linguaggi estremamente ampia, dal teatro alla danza, al linguaggio più strettamente performativo, passando per tutte le variazioni. Mi sembra che sia un dato rilevante l’estrema ricchezza dei linguaggi scenici, e pur non potendo essere certo esaustivi, abbiamo cercato di offrire una piccola panoramica di questa ricchezza.
Secondo quale criterio avete scelto gli abbinamenti tra artisti e critici? E sono stati efficaci come speravate?
ELVIRA – Molto spesso ci siamo basati su intuizioni, parlandone con i critici in generale. Ma in altri casi abbiamo appositamente abbinato un artista e un critico che non si conoscevano molto o affatto. Abbiamo trovato comunque una grande curiosità e disponibilità da parte della critica, questo dato va sottolineato.
Avevate già lavorato usando un media partner. Questa volta com’è andata con KLP? (I due intervistati assicurano la sincerità della loro risposta, ndr)
ELVIRA – Nella prima edizione il media partner, Podoff, era un partner “audio”, nel senso che realizzava podcast audio delle interviste ad artisti e critici. La documentazione video era stata realizzata da Riccardo Frezza e poi montata e pubblicata sul blog. In questa edizione avere come partner una testata online specializzata mi sembra sia stato un valore aggiunto molto importante.
DANIELE – Sì, nella scorsa edizione Podoff forniva un ottimo momento di conoscenza tra critico e artista e insieme costituiva una sorta di presentazione della serata, dunque ricopriva un po’ la funzione delle brevi interviste realizzate quest’anno da Klp. La vera differenza è stata nella continuità del feedback a posteriori, dopo ciascuna serata. A fare la differenza è stato anche il fatto che ad ogni incontro sia stato dedicato un articolo di approfondimento e che qualcuno si sia preso la briga di cercare di trarre le fila di un ragionamento unico intorno a quello che stava succedendo.
Nel corso di tutti gli appuntamenti, e in qualcuno in particolare, sono sorte alcune discussioni che prendevano direttamente di mira il critico, il suo ruolo e la sua funzione. In qualità di organizzatori di un evento che tenta proprio di affidare la propria riuscita anche al contributo critico, qual è la vostra posizione?
ELVIRA – L’intento di Novo Critico è quello di aprire e tener vivo il dialogo tra artisti, critica e pubblico. E in particolare il nostro scopo è proprio tentare di focalizzare e accendere il dibattito sul ruolo della critica, quindi le discussioni che sono sorte ci sembrano pertinenti. Non partiamo da una situazione data, e certo non avevamo nessun punto di vista da affermare, se non una necessità di dialogare. Se il dialogo è acceso credo che questo sia un segnale della vitalità e dell’urgenza che ci coinvolge tutti. Noi ci auguriamo che le discussioni ci siano, e anzi continuino. Novo Critico non vuol essere un progetto che si realizza e poi si chiude: è anzi il tentativo di attivare un processo. Sul nostro blog ci sono i materiali, i commenti, le riflessioni, i video e lì rimarranno in modo tale da poter esser visti e e letti anche in seguito. Novo Critico, con il suo blog, invita tutti a commentare, dire, contribuire alle discussioni, e chiaramente pubblichiamo e pubblicheremo contributi e spunti che arrivano da tutti. Invitiamo dunque a inviarci pareri, dissensi, osservazioni e quanto sia pertinente e utile.
Pensate che il rapporto tra critica, artisti e pubblico corra il rischio di “parlarsi troppo addosso”?
DANIELE – Penso che questo rischio ci sia senz’altro, specie tra critica e artisti, due categorie in fondo piuttosto prepotenti e chiacchierone, che hanno ruoli diversi ma fanno parte dello stesso mondo liminare e marginale che, di suo, tende a “parlarsi troppo addosso”. In alcune serate, o in alcuni momenti di diverse serate, quando magari la presenza in sala di altri critici o altri artisti colleghi era più numerosa, mi pare che le discussioni abbiano rischiato di essere monopolizzate dai pochi addetti ai lavori. Tutto questo per fortuna è successo in misura molto ridotta e devo dire che sinora siamo stati bravi a coordinare al meglio le serate. L’equilibrio tra comunicazione e autoreferenzialità, in situazioni come queste, è delicatissimo, sempre appeso a un filo, ma penso valga la pena di rischiare. Di sicuro è bello spaccare quest’uovo (uno spettacolo in preparazione, un metodo di lavoro, una poetica, un pensiero dietro alle cose che si fanno) e guardarci dentro tutti insieme, artista, pubblico, critica, prima che sia troppo tardi, prima che il proprio lavoro diventi quell’oggetto rotondo (o ovoidale) che è uno spettacolo compiuto, prima che la propria “arte artigiana” diventi una merce da buttare in pasto all’inappetente mercato/non mercato teatrale. Ma forse adesso sto parlando più da “artista” che da organizzatore.
ELVIRA – Io penso che sia meglio correre il rischio piuttosto che non correrlo affatto. La questione che mi sembra sia sorta dagli incontri e dalle discussioni, ed è una questione importante, è quanto tutto questo riesca a coinvolgere il pubblico, sia da parte degli artisti, sia da parte della critica. In ogni caso penso che parlare e dialogare non è un “parlarsi addosso”, se non altro perché in fondo c’è bisogno di dirsi le cose, di chiarirsi meglio.
Diverse compagnie di successo, grazie al talento e all’appoggio delle istituzioni, scavalcano i confini e portano i propri lavori all’estero. E viceversa. Secondo voi questo favorisce una mescolanza di culture teatrali o si risolve in una messa in evidenza delle grandi differenze che le separano?
ELVIRA – Se andare all’estero significa aprire lo sguardo, la mente, sì, favorisce certamente la mescolanza delle culture teatrali. In realtà mi sembra che il panorama sia un po’ diverso: poche sono le compagnie che riescono ad andare all’estero attraverso i canali istituzionali. Le compagnie vivono in certo modo in isolamento, almeno dentro i confini nazionali. È difficile andare all’estero con le proprie forze e poche sono le occasioni. Di contro credo ci sia un panorama estremamente ricco oggi in Italia, una grande forza creativa.
DANIELE – Grande o piccola che sia, quella teatrale è una forza un po’ depressa. Anche all’interno dei confini nazionali. Per poche compagnie cui viene attribuito – dal mercato? dalla critica? – l’ambiguo concetto di “eccellenza” e godono di una, a volte solo apparente o transitoria, facilità di circuitazione e visibilità in Italia e all’estero, ci sono centinaia e centinaia di compagnie che si arrampicano ogni giorno sugli specchi, da sempre e per sempre. Non saranno tutte “eccellenti”, ma senz’altro molte sono di valore e meriterebbero di più che cachet non sempre adeguati, teatri mal attrezzati o poco riscaldati e pochissime date l’anno. Ci sono intere regioni d’Italia che paiono non esistere. Penso alla Calabria, dove – parlando di compagnie del cosiddetto “teatro di ricerca”, che è quello di cui facciamo parte come artisti e come spettatori – oltre a Scena Verticale, con le sue produzioni e il suo bel Festival Primavera dei teatri, ci sono altre realtà e iniziative spesso buone, a volte persino “eccellenti”, che troppo spesso non hanno il meritato rilievo nazionale, e che scontano un isolamento che non meritano. Siamo appena tornati, ad esempio, da Lamezia Terme. Ma quanto bravi, quanto seri, quanto onesti e meritori sono gli organizzatori del Festival Ricrii, che tra l’altro è già all’ottava edizione?
Riprendendo una domanda – forse un po’ pretestuosa – emersa in uno degli incontri, “mentre molte cose ci stanno crollando addosso, che senso ha fare teatro?”
ELVIRA – Il mondo sta sempre sul punto di crollare. Per quanto mi riguarda fare teatro è la sola cosa sensata o insensata che io possa fare.
DANIELE – Il teatro non è un tetto resistente che possa ripararci il capo, è vero, ma che senso avrebbe stare ad aspettare che tutto il resto ci crolli sulla testa senza far teatro? Ciascuno fa quel che sa fare, o che perlomeno sa far meglio, o in cui riesce a mettere del senso. Mettere un senso nelle cose, riuscire a creare cose che abbiano senso – che siano un tavolino, un matrimonio, un libro, un figlio o uno spettacolo è lo stesso – è l’unica cosa che nella vita abbia un senso.