La settima edizione della rassegna Pompeii Theatrum Mundi si apre con l’omaggio a Isgrò. Protagonista del suo Ulisse è Luciano Roman
Cancellare senza distruggere, riscrivere per far riemergere. Pompei e Isgrò, Isgrò e Pompei: una specularità fatta di rimandi simbolici e concettuali, portata a sintesi in un progetto spettacolare: “Odissea cancellata”, ovvero un’opera che prende forma da un’altra – illustre e antecedente – che al contempo scompare, evapora, svanisce sbiadendo dagli spalti della cavea su cui compare in forma d’epitome. Gli spalti sono quelli del Teatro Grande di Pompei, città scomparsa ma mai distrutta, cancellata dall’eruzione del 79 d. C. e poi riemersa dalle viscere della coltre lavica che la custodiva sepolta.
Cancellare, rimuovere, sostituire, riscrivere. Prendere la storia, sottoporla a vaglio critico e darne versione apocrifa, sottraendola di forza alla tradizione, alla vulgata, per farne strumento di lettura panoramica al presente, chiave di volta per rivedere un sistema, ma soprattutto pietra d’inciampo per interrogarsi su simboli e senso, segni e significati, sul concetto filosofico di verità, in un tempo come il nostro in cui ad essa è contigua la post-verità. La necessità che il Mito venga trasfigurato: cancellare, riscrivere, ma soprattutto ricalibrare, dare un senso nuovo a ciò che è stato già scritto per inscriverlo nel presente.
Così, la cifra espressiva di Emilio Isgrò, la “cancellazione”, si fa metodo scenico al servizio di un’idea, incentrandosi sulla figura archetipica di Ulisse, concentrato umano di virtù e debolezze. L’uomo “dal multiforme ingegno”, che volle sfidare gli dèi, ha qui il volto e il corpo di Luciano Roman; è un viaggiatore vissuto, provato dalla temperie di una vita intensa, un uomo dalle membra appesantite che ci appare in dissolvenza tra i versi proiettati sui gradoni, aspetto dimesso e una sacca chiara a tracolla, si sdraia riverso sulla parte bassa della cavea, prima di cominciare il suo racconto, la sua (de)mistificazione di quelle che per noi sono apodittiche certezze tramandate dalla tradizione omerica, e che invece l’Itacense redivivo si curerà di smentire, tacciando per menzognero quello stesso autore che l’aveva consegnato all’immortalità, e del quale non viene mai evocato il nome ma solo definito per perifrasi: “il maledetto cieco”, “l’orbo”, quasi a volerne sminuire il peso e l’ingombrante autorità.
Nella tiepida serata pompeiana eravamo stati introdotti alla rappresentazione, prim’ancora d’accedere al teatro e accomodarci sulle sedie che guardano alla cavea, luogo scelto per essere scena animata di parole scritte e corpi agiti, nel quadriportico che funge da vestibolo e che fu un tempo palestra gladiatoria: al suo centro, cinque pannelli che eravamo riusciti a scorgere solo da lontano, recavano impressi simboli che potevamo intuire prodromici a quanto di teatrale stava per accadere, componendo tra le parole scritte il profilo di una nave stilizzata.
Una volta entrati in teatro, dinanzi a noi si para quello che, ora come un tempo, era lo spazio preposto ad accogliere gli spettatori; in questa Odissea capovolta, prima ancora di essere cancellata, noi astanti siamo dall’altra parte ed è la cavea a farsi scena; tripartita in tre file da diciassette gradini ciascuna, su ogni spalto campeggiano in proiezione iscrizioni in greco classico, inizialmente nitide e leggibili per chi abbia certa qual dimestichezza con la filologia ellenica o abbia trascorso scampoli d’adolescenza ingobbito sul Rocci ad arruffar traduzioni.
L’autore stesso, Emilio Isgrò, è accomodato in prima fila, su una sedia da regista, ad assistere alla messa in scena di quel testo riscritto di suo pugno, finora inedito, e affidato alla regia di Giorgio Sangati che appare pienamente sinergica al testo, agendolo nel suo divenire scenico in un’orchestrazione di luci e suoni che ripropongono in maniera evocativa il fluttuare del mare e l’idea – tanto fattuale quanto metaforica – del viaggio dell’eroe.
Testo complesso, articolato, che gioca a rimescolare le carte tra classico e moderno, contaminando il linguaggio e infarcendosi di slittamenti lessicali e concettuali che calano la narrazione epica nel tempo presente, attualizzando il mito mentre lo si demistifica. E così, ad esempio, l’otre che conteneva i venti di Eolo si rivela fatto di pelle di capra e non di bue, e traslittera in un container e persino in un computer rendendolo verbalmente a noi contemporaneo, mentre il viaggio di Ulisse/Odisseo è ora calato in un mare inquinato di torsoli e frattaglie, lattine e liquami vari.
L’azione scenica avanza mentre il testo dissolve e scompare; attorno alla figura centrale di Ulisse, narratore di sé stesso e fulcro attoriale, ruotano e fanno da contorno e da coro sei figure (Clara Bocchino, Francesca Cercola, Eleonora Fardella, Francesca Fedeli, Gianluigi Montagnaro, Antonio Turco); i loro impermeabili bianchi e gialli, a coprire altrettante maglie a righe orizzontali e calzoni corti, ce li fanno percepire come compagni di viaggio dell’eroe che fronteggia i mari in tempesta; gli si agitano attorno, sembrano volerlo interrogare sulle sue peripezie, piccoli uomini, nani, o addirittura insetti che stanno lì sulla scena a simboleggiare la condizione umana minoritaria della moltitudine operosa al cospetto di una storia da cui appaiono di fatto esclusi; storditi loro malgrado, in balìa di decisioni altrui, fossero esse di uomini eletti o di divinità capricciose.
Più che un viaggio vero e proprio, quello di questo ‘Ulisse reloaded’ è un ritorno simbolico a sé stesso, all’uomo e al suo essere solo al mondo (“Solitudine umana, di tutte le libertà sei la più terribile” dirà lui a un tratto). E, in questo viaggio di ritorno, si susseguono in quadri scenici che somigliano ad apparizioni oniriche, i personaggi – interpretati a turno dai membri del coro – più iconici dell’Odissea, ma cambiati di senso: Telemaco diventa emblema di una paternità negata, forse mai nemmeno nata; Penelope una compagna d’infanzia e di primi giochi erotici di cui viene messa in discussione la stessa, tradizionalmente granitica, fedeltà; Nausica perde una “a” in desinenza e si trasfigura in una giovane baldracca sboccata e invereconda; mentre Polifemo apparirà dall’alto, anche qui confinato in un antro, nella forma di un bambino piagnucoloso.
Solo Circe rimane emblema di una carnalità verace, ma anch’ella partecipa alla sequela di apparizioni che, col loro dire, vogliono smentire e cancellare le parole del “maledetto cieco” per strappare Ulisse da quella visione tradizionale di πολύτροπον, eroe “dal multiforme ingegno”, e restituircelo profondamente umanizzato, quasi derelitto, più naufrago della vita che viaggiatore del mito.
Ma cosa vuol dimostrarci, in fin della fiera, questa “Odissea cancellata” di Isgrò? Probabilmente che la tradizione (letteraria ma non solo) non va trattata alla stregua d’un inscalfibile monolite; la messa in discussione del poema rammenta che c’è sempre una prospettiva ulteriore, magari non ancora esplorata, dalla quale guardare alle cose, per elaborarne una visione differente – coerente o contraddittoria che sia rispetto alle precedenti –, e tale visione si estende agilmente dal Mito alla Storia, calandosi nel secolo in cui si è, nei tempi in cui si vive.
La forza intrinseca di questa operazione che mescola teatro e installazione artistica risiede nel fatto che la cancellazione operata in scena non è una rimozione ma una rimodulazione, concepita per innervarsi sul pregresso del quale ciò che viene cancellato – sparendo progressivamente dagli spalti o venendo cancellato con segni scuri sovrapposti alla scrittura – è comunque pensato per lasciare traccia di sé, come a dire che non si sta soppiantando qualcosa di già scritto e già detto, ma lo si sta inserendo in una nuova dinamica relazionale.
Il limite risiede invece in un testo ambizioso come può essere ambiziosa la riscrittura di un mito, ma che in taluni passaggi sembra disperdersi in qualche rivolo più astruso, in ciò non agevolato dalla scelta di un registro prevalentemente declamatorio che, per quanto coerente alla dimensione scenica e all’ispirazione classica, affatica nel rendere fluidamente agibile la comprensione di certi passaggi nodali. Probabilmente siamo al cospetto di un testo che, per densità concettuale, meriterebbe ben altro approfondimento filologico da affiancare alla visione scenica.
Siamo comunque dinanzi a un’opera che, in maniera suggestiva e spettacolare, afferma la potenza evocativa della parola, ne ribadisce la primazia paradossalmente negandola mediante la sua stessa cancellazione, rinverdendo, in certo qual modo, la tradizione antica e orale degli aedi, per cui la parola, esplorando estensivamente le proprie possibilità espressive, nell’atto stesso in cui evapora e scompare, più forte risuona e più a lungo rimane. Arricchendosi di sensi e significati ulteriori, ampliando il ventaglio delle proprie possibilità espressive.
Nella notte di Pompei, Ulisse/Odisseo riappare – diverso da come avevamo imparato a conoscerlo – per poi sparire. Ma sparendo, come le parole che lo hanno narrato, lascia comunque dietro di sé traccia e memoria.
Odissea cancellata
di Emilio Isgrò
regia Giorgio Sangati
con Luciano Roman, Clara Bocchino, Francesca Cercola, Eleonora Fardella, Francesca Fedeli, Gianluigi Montagnaro, Antonio Turco
installazione scenica Emilio Isgrò
progettazione scenica Claudio Lucchesi Studio ufo
costumi Eleonora Rossi
disegno luci Luigi Biondi
musiche Giovanni Frison
cura del movimento Norman Quaglierini
aiuto regia Angela Carrano
assistente regia volontario Gianluca Bonagura
direttrice di scena Flavia Francioso
macchinista Nicola Grimaudo
datore luci Giuseppe Di Lorenzo
fonico Daniele Piscicelli
sarta Roberta Mattera
foto di scena Ivan Nocera
costumi realizzati da Sonia Marianni e Francesco Boscolo
parrucche realizzate da Patrizia Rossi e Gaia Ombrini
produzione Teatro di Napoli – Teatro Nazionale
con il contributo del Parco archeologico di Pompei
Pompeii Theatrum Mundi
durata: 1h 10’
applausi del pubblico: 1’ 45’’
Visto a Pompei, Teatro Grande del Parco Archeologico, il 14 giugno 2024