Teatro del Lemming chiude la ventesima edizione del festival, che ha visto fra i protagonisti Teatro Nucleo, Teatro delle Ariette, Anagoor, Momec, Masque Teatro…
A Rovigo il teatro è tornato a fare famiglia, una dimensione di cui c’è bisogno, considerata la marginalità del settore rispetto alle scelte politiche e alla competizione di nuove forme di intrattenimento culturale.
Siamo stati bene in qualità di ospiti del Festival Opera Prima, organizzato dal Teatro del Lemming a Rovigo dal 26 al 30 giugno. In una città che si è rivelata accogliente e vivace, la percezione di un’apertura generosa verso la comunità di spettatori e la partecipazione di questi ultimi in maniera attenta e coesa hanno fatto la differenza.
La cura nei confronti della sensibilità del pubblico si è espressa non solo attraverso alcune scelte della direzione artistica: ogni giornata infatti prevedeva da uno a due interventi all’aperto in spazi urbani in pieno centro – tra cui il monumentale “Quijotte!” di Teatro Nucleo -, con linguaggi magari insoliti ma largamente fruibili; ma anche attraverso appuntamenti dedicati all’incontro e alla riflessione condivisa tra artisti e spettatori; infine, i momenti più leggeri e festosi del dopofestival musicale sono stati efficacemente aggreganti.
Sorprendente è stata la partecipazione di studenti del liceo scientifico al laboratorio “Ma che cavolo guardi?”, condotto dal bravissimo Michele Pascarella: sorprendente sia per quantità – 25 ragazzi – che per qualità delle domande e dei contributi. Le loro osservazioni hanno dimostrato sensibilità penetrante, rapida capacità di rielaborazione ed urgenze espressive che hanno trovato uno spazio di canalizzazione nel dibattito e nel blog Il giornale del Festival, integrato nel sito ufficiale. Un segno che lascia ben sperare che il teatro contemporaneo possa perpetuare la sua tradizione e competere con altri strumenti massmediatici nella risposta ai bisogni di formazione ed identificazione dei giovani.
La vitalità e lo stato di salute del teatro sono stati confermati anche negli incontri più allargati del Prefestival, in tarda mattinata, ai Giardini delle Torri medievali, con gli artisti del giorno precedente e della sera a venire: occasioni preziose per mettere a fuoco chiavi di interpretazione più precise ed avere più elementi per apprezzare le proposte, ma anche per riconoscere quale forma di attrazione esercita ancora oggi la scena. Una frequentatrice assidua ha ringraziato pubblicamente l’organizzazione perché in queste giornate si è sentita trasformata, confermando le attese di Stefano Pasquini del Teatro delle Ariette, che si identifica nel «fare arte per modificare l’esistenza propria e degli altri».
Oltre a lei, un’altra spettatrice ha confermato che “Sirene”, performance itinerante e sensoriale di Sara Villardo ispirata al nostos, al viaggio di ritorno degli eroi, ha agito come un dispositivo di realtà aumentata per attraversare con consapevolezza diversa la propria città.
C’è chi ha regalato piccole opere d’arte, altri hanno inviato lettere di restituzione al Teatro del Lemming, gli stessi esercenti hanno dimostrato grande simpatia e disponibilità a sostegno del festival.
Che il teatro faccia bene, sia a chi lo pratica che a chi vi assiste, è un’evidenza ben nota ma che vale la pena ribadire, considerando i drastici tagli al settore, in particolare della Regione Veneto, che sono stati anche oggetto di alcune considerazioni a margine della presentazione del volume “Il teatro veneto 1970-2000”, dello scomparso Carlo Manfio. A distanza di più di vent’anni da una stagione di grande fecondità e fiducia, a nostro avviso lo stesso territorio manifesta una certa «ostilità» per la creatività indipendente, e si è dimostrato orientato a censurare quelle poetiche che interpretano l’evento teatrale in senso heideggeriano, come «luogo di ricerca del sacro, di tensione verso la manifestazione di qualcosa che ha a che fare con l’invisibile e l’indicibile», riutilizzando le parole di Lorenzo Bazzocchi di Masque Teatro: il pericolo politico di questa forma, infatti, risiede nel fatto che «consente di distinguere tra il vero e le necessità di sopravvivenza o l’illusione di vita» e quindi di sollecitare la formazione di «soggetti autonomi rispetto alla visione più facilmente individuabile».
La questione sulle strategie di resistenza è rimasta aperta, perché la parola «rete», più volte nominata, prevede sfide faticose da sostenere in queste circostanze e a fronte anche di un divario generazionale tra compagnie da ricucire.
La direzione artistica ha privilegiato esperienze prossemiche ed interattive, che hanno reso inevitabile e più radicale l’attivazione del pubblico: rispondere alle richieste di un attore con azioni o parole, essere affiancati o presi per mano, sentire che l’opera chiede il nostro contributo per completarsi lasciano nel vissuto dello spettatore un segno più profondo. Massimo Munaro, fondatore del Teatro del Lemming, ritiene infatti che «provocare è il lavoro del teatro» e che esso abbia «un senso quando crea un ponte tra me e te», come sosteneva Grotowski.
La reazione può suscitare anche diffidenza, come è accaduto per alcuni che hanno assistito a “Linearity”, simpatica coreografia di Joshua Monten in cui Alina Lugovskaya e Yorgos Pelagias tracciano a terra, con un nastro adesivo, uno schema che i loro corpi continuamente irridono con la danza, mentre alcuni astanti vengono letteralmente “sequestrati” e bloccati con lo stesso scotch. Una gag danzata lancia quindi l’allusione al contrasto fra ciò che è normante e la faticosa, ma anche gioiosa, libertà di vivere senza condizionamenti da parte di esso.
Uno spazio a parte meriterà “Rivolti”, del collettivo Momec_memoria in movimento, che si conclude offrendo un microfono allo spettatore per dichiarare la propria «intima rivolta» a fronte della piazza principale.
Le corde dell’empatia e della fratellanza sono state fatte vibrare in modo opportuno proprio in questo momento storico. “Todos los malos”, produzione cinematografica di Anagoor, è risultato da questo punto di vista di fortissimo impatto, affrontando la questione delle storture del colonialismo con una sensibilità che invita a riflettere anche sulla violenza esercitata in altre circostanze di repressione di identità e culture relegate ai margini.
“Attorno a Troia_Troiane” ha invece portato in scena gli allievi della scuola di alta formazione condotta dal Lemming come guide per riattraversare il testo di Euripide secondo la poetica prossemica della storica compagnia: il rapporto con gli attori è individuale, si può essere accarezzati o invitati a toccare il corpo dell’altro, possono esserci affidati degli oggetti, magari il fagotto di un bambino tra le braccia. Il disagio personale è un rischio concreto, qui perseguito nell’intenzione di far vivere l’esperienza della guerra e dell’esilio in una successione rapida di stazioni: smettere di giocare, perdere un figlio, sacrificare la giovinezza, vivere nella paura e nel lutto. Accade vicino a noi e ci può riguardare da un momento all’altro, soprattutto già riguarda milioni di persone per i quali la Dichiarazione dei Diritti Umani dell’Onu – recitata nella conclusione – non conta.
Questo scenario è stato poi testimoniato e amplificato dalle parole e dalla musica di Aeham Ahman, pianista palestinese nato nel campo profughi siriano di Yarmouk ed ora esule in Europa dopo aver percorso la rotta balcanica. Nel 2015 ha ricevuto il Premio internazionale Beethoven per i diritti umani, la pace, la libertà, per aver portato il suo pianoforte nei luoghi colpiti dalla guerra civile siriana per dare speranza e conforto. E sulle sue note, così simboliche, si è concluso il festival 2024.