Operaestate: 40 anni di genius loci per il contemporaneo veneto

Cea Venessia di Stivalaccio Teatro (photo: Serena Pea)
Cea Venessia di Stivalaccio Teatro (photo: Serena Pea)

L’ambiguo souvenir con il quale ricorderemo la 40^ edizione di Operaestate è l’intramontabile eleganza di una voce, quella della direttrice generale, Rosa Scapin, che a questo sentito traguardo ha fatto giungere il festival, con oltre venti città palcoscenico coinvolte nel programma diffuso, che negli anni è arrivato a coinvolgere ogni estate quasi 150.000 spettatori.
Una voce registrata che, di fronte al rosso delle sedie per il Cinefestival immerse nel verde dei Giardini Parolini di Bassano del Grappa, ricorda agli spettatori le norme da seguire per il contenimento del Coronavirus nei differenti spazi del festival.

A vedere “Effetto Domino”, ultimo grande lavoro di Alessandro Rossetto sui disastri finanziari del nord-est, c’è chi arriva con dei simpatici cuscini a pois, per resistere meglio alla durezza di una sedia, o forse perché davvero si sente che, oggi come non mai, Operaestate è in grado di divenire il prolungamento della casa di molti.

Parlare qui di “territorio” toglierebbe all’impatto culturale del festival la sua marca più propria, che ne fa, in ultima istanza, una presenza resistenziale di grande valore in un contesto come quello veneto odierno.
Ci stiamo non a caso riferendo a tutti quegli spazi – economici, fisici, di ascolto e dialogo – che il festival è stato in grado di creare negli ultimi anni, grazie anche e soprattutto a scelte oculate e sempre intelligenti negli ambienti direttivi e di tutto lo staff.
L’aspetto sul quale sembra più interessante concentrarsi è proprio l’attenzione e lo stimolo continuo ai contesti nei quali il festival si è trovato ad operare.

Tralasciando quindi le eccellenze della danza – dalle collaborazioni internazionali ed interculturali, alle attività di “Dance well” negli spazi museali cittadini – è interessante guardare ad Operaestate come ad uno di quegli attori capaci di promuovere il meglio di quella che è identificabile come una vera e propria linea veneta: un insieme di personalità provenienti da vari ambiti artistici capaci di riflettere sul contesto della regione e non solo, con un notevole acume critico e poetico.

I nomi che si potrebbero fare sono molteplici – e su tutti spiccherebbe, forse, la figura di Vitaliano Trevisan – ma dovendo qui limitarci alle presenze teatrali nel programma di quest’anno, l’obiettivo non può che andare a restringersi su due realtà particolarmente vive e significative.

La prima, più contestuale, è quella di Stivalaccio Teatro, una compagnia da sempre legata al festival che si distingue, all’interno del panorama veneto contemporaneo, per la capacità di creare un modo della commedia sempre intelligente e mai scontato, in grado di guardare ai modelli illustri della tradizione con un’originalità divertita che non nasconde le proprie radici profonde nella vita e nella storia del contesto in cui opera.
Ecco quindi che il testo di Marco Zoppello, “Cèa Venessia”, debutta a Bassano la sera del 13 agosto presentando la vicenda di un’Odissea nostrana dal nord-est all’Australia: e in questo viaggio la compagnia dimostra una grande capacità di unire una prima parte a metà tra comicità ed autocoscienza, in cui si riflette a luci accese sul significato di schei e mona, ad un secondo tempo più marcatamente teatrale in cui l’ottimo Stefano Rota è mirabilmente in grado di trattenere diversi personaggi ed atmosfere, che riportano in modo diretto al sentire dell’emigrazione di fine ‘800.

Continuando ad osservare le realtà accompagnate da Operaestate, anche sul piano delle produzioni, sin dalla nascita, non si può non guardare all’eccellenza di Anagoor, per la quale il contesto veneto è solo uno dei molti punti di partenza, accanto a quello principe della classicità.
La compagnia è ormai molto nota anche per il recente approccio al mondo operistico contemporaneo, ma soprattutto per il Leone d’argento della Biennale di Venezia ricevuto due anni fa. Paradossale qui pensare al fatto che una simile realtà teatrale, senza alcun dubbio tra le più interessanti del panorama italiano, stia già per compiere il suo ventesimo anno d’età, essendo sempre rimasta legata alla problematizzazione del suo contesto di nascita.

Lo si pensa di fronte allo screening di “Mephistopheles”, un altro debutto bassanese nel quale il teatro di Anagoor, in era Covid, diviene una città ideale in cui l’uomo è pressoché assente – in scena infatti soltanto Marco Menegoni al computer e Mauro Martinuz per il live sound -. Rimane soltanto l’assolutezza di un video dalla fotografia impeccabile e perturbante proiettato su un grande telo bianco. Anagoor raduna il materiale video raccolto tra il 2012 e il 2020 in un unico viaggio per immagini attraverso la luce e il dolore del mondo, musicato in un live set sinfonico da Martinuz.
Non manca, anche qui, tra il silenzio delle immagini, un affondo nella filiera industriale dell’allevamento veneto, in quegli spazi nei quali ci si lava dai lasciti sanguigni delle uccisioni animali, e forse anche da quelli di un’identità contadina, prossima ai ritmi della terra e dell’animale, della quale, traumaticamente, ci si vergogna.

Ecco quindi che si vorrebbero incontrare sempre più festival e spazi come quello di Operaestate, operanti come i loci propri per la promozione di una scaturigine contemporanea che, negli ultimi decenni, il contesto veneto non ha mai smesso di rivelare.

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