Le parole possono essere paragonate ai raggi X; se si usano a dovere, attraversano ogni cosa.
(A. Huxley)
Quella dello scontro tra opsis e logos è un querelle antica nel nostro teatro. E Tangram Teatro, la propria posizione in merito, l’ha dichiarata da anni: all’accogliente teatrino di Bruno Maria Ferraro e Ivana Ferri piace raccontare, parlare, affabulare. Trasformare le storie in grandi storie. In storie memorabili. Non si tratta della verbosità magniloquente di tanto “teatro di parola” (e di tante parole). Non il bla-bla di cui si riempiono la bocca troppi attori e registi contemporanei di velleità etico-politiche, bensì piuttosto una parola pura, magica, fiabesca. Teatrale, appunto. E vetrina privilegiata per la diffusione di questa particolare concezione di teatro sembra essere la rassegna annualmente promossa dal feudo ospitante di via Don Orione 5 a Torino.
Ad un piccolo nucleo di spettacoli firmati da artisti della scena nostrana (per l’edizione MaldiPalco 2017 Mariangela Gualtieri, Ilaria Drago, Saverio La Ruina e Ksenjia Martinovic, quest’ultima in gara l’anno scorso proprio con il fortunato “Diario di una casalinga serba”), si affiancano quattro monologhi di trenta minuti, selezionati fra le molteplici candidature pervenute da parte di attori di età inferiore ai trentadue anni aderenti ad una call nazionale. Quest’anno le quattro sfidanti sono state tutte donne.
Che cosa hanno voluto dirci?
Primo spettacolo in gara è stato quello della “paolograssina” Gloria Giacopini, significativamente intitolato “Sogliole a piacere”.
L’attrice dalla voce profonda – “ursulea”, direbbe lei – si serve della parola in chiave ironica, dissumulando con battute e ammiccamenti una vicenda obiettivamente dolente. Possiamo rintracciare in questa sua performance – sia pur in forma depotenziata – quella categoria di “grottesco” fissata da Antonio Attisani per la stagione del grande teatro contemporaneo: un’amalgama, cioè, di tragicità e irrisione. Quella dell’io agente è la storia di una metamorfosi bizzarra, o meglio del tentativo di mimetizzarsi e di confondersi con il mondo circostante (il colore della sedia dell’ufficio, la tappezzeria, …), appiattendosi alla stregua di una sogliola. Gloria racconta gli incidenti di percorso di una vita ordinaria, tra l’atteggiamento scostante di una madre “in cellulosa” e un padre distante, incapace di concederle del tempo di qualità. Entrambi paiono comparse occasionali nella sua routine quotidiana. Due presenze-assenze, che – non a caso – mancano di un corpo fisico. Sono entità virtuali: l’una – il padre – evocato soltanto tramite la parola dell’attrice, l’altra – la madre – che fa talvolta capolino in sala attraverso un videoproiettore (è la stessa interprete, comicamente camuffata, con inforcato sul naso un buffo paio di occhiali da vista). Il solo fatto di poter pronunciare il proprio cognome, quello del padre, ad alta voce o la sorpresa di poter trascorrere con lui un viaggio in macchina si trasformano per la protagonista in occasioni di giubilo; a queste fanno da contraltare le sconfitte e le delusioni personali, in primis quelle riportate da bambina sul palco al momento del proprio “debutto sulle scene”.
Parola totalmente dissociata è invece quella portata in scena da Ilaria Matilde Vigna, formatasi presso la scuola del Teatro Stabile di Torino e nota al grande pubblico per la sua partecipazione al pluripremiato “Santa Estasi” latelliano.
A MaldiPalco la giovane attrice rodigina propone un interessante lavoro, “Causa di beatificazione”, tratto da un trittico di Massimo Sgorbani, scoperto – ci rivela – grazie al collega Leonardo Lidi. In questo secondo canto, che «profuma di pioggia, Kosovo e guerra, innocenza e terra promessa, sotto lo sguardo dell’occhio di Madre Teresa», il pubblico è trasportato nella dimensione plumbea del disagio e della devastazione. Nel deserto più arido dell’umanità, tra le strade di Pristina, si stagliano comunque delle note di colore: il vestito rilucente della protagonista, il suo tono di voce ingenuo e trasognato, il sentimento sincero per il padre del suo bebè. La Vigna attraversa verbalmente il dramma della prostituzione e della guerra con la leggerezza spensierata della gioventù, ricordando da vicino l’interpretazione della segretaria dell’omonimo testo di Natalia Ginzburg, messo in scena l’autunno scorso al Teatro Gobetti per la regìa del succitato Lidi. «Nessun manierismo – ci assicura però – Se guardate la mia Clitemnestra vedrete che adotto anche altri timbri, altri stili». La partitura musicale ha poi un ruolo di primo piano in questo studio: a curarla Michele Papa.
Ora un po’ di filosofia. Per Gorgia, celebre teorizzatore del relativismo etico, la parola è un «grande dominatore, che col più piccolo e più invisibile corpo compie le opere più divine». Proprio la capacità suasoria, mistificatrice ed incantatoria della parola è al centro dell’intenso monologo della giovane attrice Sarah Nicolucci, che con interpretazione energica e magnetica porta in scena “Il Predicatore”, ambizioso testo di Giacomo Sette sul fenomeno del fanatismo e fondamentalismo religioso all’interno della Chiesa Evangelica americana: «Una sfida per chi, come me, si definisce agnostica. L’unica, parziale, educazione religiosa che ho ricevuto è quella trasmessami dalla nonna, con la quale da bambina discutevo animatamente delle omelie della domenica. Un testo del genere ha dunque rappresentato quasi la legge del contrappasso per me, mi ha spinto ad esplorare – e portare ai suoi estremi – qualcosa che ho sempre rinnegato».
Il protagonista di questo delirante soliloquio che, come sottolinea l’attrice, «ha per tema la seduzione e la violenza della parola», è un sedicente pastore che, fra ipnotiche estasi mistico-erotiche e scaltrite strategie di marketing cultuale, impartisce lezioni di retorica e di vera e propria arte teatrale alle future legioni di sacri oratori, adoperando quelle che il medico francese Hyppolyte Bernheim, padre della psicoterapia dinamica, avrebbe definito tecniche di “suggestione in stato di veglia”. Lo scopo è soggiogare, sin dalla più tenera età, le masse di fedeli, facendo leva sulle vulnerabilità psicologiche individuali e sull’istigazione a un irrazionale odio del Diverso. A supportare la performance di questa show(wo)man formatasi allo Stabile di Genova, che affianca abilmente la torrenziale demagogia del politicante al carisma scenico della popstar, è l’imprescindibile dimensione sonora curata da Luca Theos Boari Ortolani, che alterna distorsioni musicali – come l’allucinata versione dell’inno nazionale degli Stati Uniti in apertura di spettacolo – ad indovinati effetti di amplificazione ed eco in loop station.
E sulla solitudine della parola, di una parola “orfana” che con moto centripeto ruota attorno al vuoto indicibile di una perdita fondamentale, lavora anche l’ultima di queste quattro talentuose under32, la genovese Marzia Gallo, proveniente dalla “Nico Pepe” di Udine.
Con il suo spettacolo “Polvere” – tratto dal romanzo per ragazzi “Se è una bambina” di Beatrice Masini e adattato a quattro mani insieme al regista Michele Segreto – questa giovane attrice si cimenta nel tentativo di riprodurre la particolare grammatica espressiva ed emotiva di una bambina alle prese con l’elaborazione del trauma e del lutto. La polvere del titolo è quella sollevata dal bombardamento che le ha portato via la madre, ma è anche l’emblema dell’invisibile e residuale traccia organica che ogni persona lascia dietro di sé al proprio passaggio: un’impronta che non resta intrappolata solo nei luoghi ma anche sotto forma di voce immateriale, registrata nella testa di questa piccola protagonista che tenta di instaurare un dialogo impossibile con il fantasma assente della madre. Sul palco soltanto una sedia-trespolo, che diventa di volta in volta collegio e casa del nonno, secondo una scelta di essenzialità scenografica, confermata anche da «un’interpretazione ricercatamente asciutta» del ruolo, che evita di scadere in una troppo facile e leziosa recitazione “bambinesca” o in enfatizzazioni caricaturalmente infantili: «O sono rimasta bambina, che è un’ipotesi – scherza Marzia – oppure devo molto all’ispirazione di mia nipote, autrice di alcune delle registrazioni, che ha fatto emergere la “me bambina” che è ancora lì da qualche parte».
MaldiPalco è nato con l’obiettivo di creare “un ambiente” dove sia possibile e realizzabile l’incontro e il confronto fra attori ed attrici di generazioni diverse. Menzione particolare merita a tal proposito il “Pinocchio dei balocchi” del LART (Laboratorio Avanzato Ricerca Teatrale) diretto da Silvia Battaglio, un gruppo nato tre anni fa e rivolto a quei giovani entro i trent’anni desiderosi di approfondire la propria formazione teatrale.
In scena, Alessandra Minchillo, Giulia Madau, Greta Fanelli, Francesca Gallo, Lorenzo Paladini, Luca Molinari, Luca Manero e Federico Rinaudi.
«Pinocchio – recitano le note di regìa – può essere recepita dai bambini secondo la loro sensibilità e dagli adulti secondo i loro strumenti di lettura in modo trasversale e differente, ma pur sempre in modo epidermico e profondo, proprio perché riesce ad arrivare al pensiero seguendo la piacevole strada della leggerezza che qui si fa sogno e poesia, pur essendo al contempo veicolo di contenuti profondi, di sentimenti contrastanti quali la paura, la solitudine, la crudeltà, e talvolta di domande difficili sul senso della crescita e della ricerca di se stessi».