Per uno stato di perpetua allerta. Di teatro, cronaca e urgenze

Teatro delle Albe - A te come te
Teatro delle Albe - A te come te
Ermanna Montanari (al centro) con le due cantanti per A te come te, alla Chiesa dei Batù di Pecetto (photo: Klp)
Quando – grazie al nostro esser sempre ‘connessi’ – si è catapultati, nel bel mezzo della giornata, in un orrore che neppure nei peggiori film, diventa difficile poi continuare sulla propria linea di quotidianità, magari passando e rivedendo articoli di teatro, uno dopo l’altro, che paiono trasformarsi in inutili facezie.

Di stragi efferate ne leggiamo ormai tutti i giorni, o quasi. Ma che davvero si possa arrivare a brutalità e cinismi come quelli descritti su tutte le prime pagine di oggi, fa venir voglia di spegnere il computer, scollegarsi dalla realtà e mandare all’aria, almeno oggi, tutto il teatro di questo mondo.
E magari anche tutta questa ingorda violenza che s’illude di poter cancellare ogni cosa.

Non ne possiamo più di saperlo, di leggerlo, di sentirlo narrare, con tutti gli agghiaccianti particolari di ogni singolo caso, chi più e chi meno. Riallestiti poi (fra qualche mese) sottoforma di processi mediatici in tribunale, camere accese e primissimi piani, serie tv o similar programmi televisivi. Il killer. Insospettabile. La famiglia. La donna. Femminicidio. Brutale assassino. Coltello. Prove. Ris. Massima pena. Scarcerazione. Si poteva evitare?

La violenza genera violenza?
L’informazione scuote davvero le coscienze? O semmai le intorpidisce, assuefandole sempre più?

Insieme a queste domande, quanto retoriche si potrebbe discuterne, non posso non ripensare allo spettacolo visto sabato sera. Occasione: il Festival delle Colline Torinesi.

Il Teatro delle Albe ha scelto tre lunghi articoli scritti, alla fine degli anni ’70, da Giovanni Testori e apparsi sulla terza pagina del Corriere della Sera, precedentemente firmata da Pier Paolo Pasolini. Tematica comune: la violenza sulle donne, in una ricerca di risposte “sull’oscura malìa che incatena il ‘maschio’ alla sua lingua prevaricatrice”, sintetizzano con efficacia le Albe.

In “A te come te” Ermanna Montanari ci porta quindi fra le parole di Testori, attraverso una lettura scenica essenziale (intervallata solo dal canto di Michela Marangoni e Laura Redaelli): un’esperienza di riscoperta (o scoperta, per i più giovani) di una scrittura che oggi forse faticheremmo perfino a definire “giornalistica”, tanto poco siamo abituati ad aver tempo non solo per leggere i quotidiani, ma anche per ragionare e riflettere, ritmati dalla velocità del susseguirsi delle notizie, meglio se rapide, brevi, essenziali, raccontate per immagini, in grado di raggiungerci ovunque. Noi, sempre (s)connessi.

E’ interessante allora, oggi, porre attenzione sull’intento con cui questa lettura scenica apre uno scorcio non solo su un tema d’attualità di così cocente cronaca (la violenza sulle donne), ma anche sulla funzione critica (di coscienza critica) che regge la sostanza di un progetto scaturito da un’idea di Gabriele Allevi e Luca Doninelli.

Scrivono Marco Martinelli ed Ermanna Montanari a questo proposito: “Si sente dire in giro: intellettuali come quelli non ce ne sono più, capaci di dare scandalo con un articolo. Coloro che sentenziano così sono gli ignavi del nostro tempo, il loro modo pigro e colpevole di rifugiarsi nella zuccherosa nostalgia impedisce di vedere che in questi trent’anni sono cambiati radicalmente i termini della questione: le parole “intellettuale”, “scandalo”, “terza pagina” non hanno più lo stesso senso. Impedisce a loro di vedere come si possa continuare (con le armi e nel contesto radicalmente trasformato dell’oggi) a non rassegnarsi al moloch dell’orribile indifferenza e dell’abitudine, all’ingiustizia e alla violenza che regnano sovrane nel mondo”.

Sta qua allora, forse, la pregnanza di un progetto che – diciamolo – con difficoltà riuscirà a dialogare con il grande pubblico, quello che forse più avrebbe bisogno di sapere che all’informazione in tv, più o meno artefatta, esistono anche alternative.
Max Weber, ne “Il lavoro intellettuale come professione”, ammoniva: “Al profeta e al demagogo è stato detto: ‘Esci per le strade e parla pubblicamente’. Parla, cioè, dov’è possibile la critica […]”. Ma qui si affaccia il problema della fruibilità, la difficoltà della nostra attenzione, la disabitudine alla riflessione, ai tempi dilatati, all’andare a teatro ma anche più in generale all’ascolto e al dibattito critico… In una società così soffocante e ‘serrata’ da costringere l’uomo, al di fuori dei propri impegni lavorativi, a cercar solo più una forma di evasione divertente, non impegnativa, rilassante, che svuoti la testa e allontani ulteriori pensieri.

Se poi guardiamo l’altro lato della questione, quello che ci spinge oggi a questa riflessione poco ragionata e molto emotiva (sarà che son donna e mamma), ecco emergere la cronaca, i fatti, con cui in qualche modo veniamo chiamati a confrontarci, fosse solo per il fatto d’appartenere a una società, noi animali socio-politici.

E’ tutta retorica, dirà qualcuno. In parte sarei d’accordo con voi. Come in parte sono anche d’accordo (in una confusa dialettica interna) con chi sostiene che, di questi argomenti di cui già si sente parlare ovunque, non se ne può più d’affrontarli anche a teatro.

Ma l’immobilismo del nostro Paese, lo sottolineano bene le Albe, fa ritrovare l’attualità di Testori (trent’anni son passati da questi articoli e dalla sua richiesta di una legge per difendere le donne dalla violenza). E lo fa anche attraverso un monito, su cui spesso ci pare di oscillare: “Non vorremmo che, come va succedendo per altre vergogne e per altri delitti, a furia di parlarne, scriverne e discuterne, senza mai assumere la responsabilità di un gesto, si finisse per diminuirne la gravità, l’irreligiosa e disumana vergogna; si finisse, insomma, per abituare l’uomo a ciò che non è umano. L’abitudine a tutto è uno dei rischi più grandi che l’uomo sta correndo; ad esso sta inducendolo la spinta negativa che vuol ridurlo a ‘cosa’”.

“In memoria di una bambina sgozzata”, titolava l’articolo di Testori pubblicato sul Corriere il 21 settembre del 1980. Oggi, come ieri.
E se, privi della speranza e della fede di Testori, oggi ci pare difficile scorgere un altro mondo possibile, l’urgenza ci coglie però per mantenerne l’appello, accolto dalle Albe, per uno “stato di perpetua allerta”.
 

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