Curata da Valentina Marini la stagione realizzata a Roma dal Centro Nazionale di Produzione della danza Orbita|Spellbound
Piergiorgio Milano debutta a Roma grazie a un focus a lui dedicato da “Vertigine”, la stagione di danza contemporanea romana curata da Valentina Marini per Orbita |Spellbound.
Il primo breve lavoro, “Denti” (2009), è accoppiato a “Fàtico” (in prima assoluta) di Irene Russolillo: più che uno spettacolo, quest’ultimo, lo specchio di un rito inventato o “inventabile”.
Della coreografa e danzatrice pugliese non si può non continuare ad apprezzare la presenza, la qualità del gesto, anche laddove esso non miri esplicitamente al risultato estetico. Eppure, quanto il suo lavoro è interiore e segue percorsi dove la contemplazione non coincide sempre con la condivisione, tanto la gestione della scena, forse proprio a causa di questa intimità fortissima, perde lucidità, come se una fibra spirituale tesissima gettasse inevitabilmente in una impotente trance la gestione degli elementi (un disegno luci compulsivo, un sensibile squilibrio nell'”uso” del secondo, corpo sperso in scena, una drammaturgia chiara nei suoi sommi capi, ma sfuggente negli ambienti che la compongono).
E tanto il breve solo di Milano stupisce, invece, per la sua estroflessione: è tutto per noi che guardiamo, teso verso il nostro sguardo come un dono materiale, da scartare.
L’unione dei linguaggi circense e coreografico in “Denti” dà vita a una lotta individuale contro qualcosa che soffoca, e che poi si ribella e sfugge e poi chiede di esser ripresa, intimando la scomparsa definitiva (fuor di metafora: una felpa con cappuccio, che, in quella candida presenza degli oggetti spesso ignorata dalla danza, assume qui con naturalezza un ruolo deuteragonistico), mette in crisi non tanto lo sguardo dello spettatore, inaspettatamente a suo agio nella contaminazione dei due modi di portare in scena il corpo, ma un pacifico rapporto sulla scena tra il corpo-soggetto e la “cosa” rappresentata. Una “cosa” che non è semplicemente nella vicenda (di vicenda si tratta, infine, una storia d’amore e d’ossessione) ma nell’impossibilità del corpo, benché ancora tutto nell’alveo di un teatro rappresentativo, di bastare a sé stesso come personaggio.
Sotto il corpo di Milano che si produce in acrobazie, si agita un dolore che nemmeno il personaggio riesce a esprimere interamente – e in ciò è veramente un po’ clown, sovrastato e, in fondo, a dispetto delle sue sperticate evoluzioni, afasico.
In “Fàtico” di Russolillo, invece, in uno spettacolo il cui titolo deve far riferimento al latino “fari”, “parlare”, o forse anche al fato, il corpo vuol essere tramite di un’energia (creatrice? cosmica?), che ora si esprime sotto un’alba, in mere emissioni vocali, dal sovracuto a calare verso un registro medio, ora in lacerti di discorsi misticheggianti, come responsi di pizie coniugati nei verbi in un presente astorico (“Siamo assetati e a nostro agio”) o all’evocatività del passato remoto.
E poi, proprio come alla fine di un rito, quando stremata giunge al termine, scossa, “affaticata” dall’energia che le si incanala in corpo, Russolillo si lascia travolgere da un grido, che riporta alla dimensione preverbale del principio – ma è un grido ora denso di significato, non un suono accordato con altre armonie, come il lungo portamento iniziale.
L’attenzione su Piergiorgio Milano si riaccende qualche giorno dopo questa serata, con un lavoro lungo, il nuovo “White out”. Qui si tratta di puro teatro-danza, pur sempre contaminato da acrobatica e arti circensi, con il loro bagaglio di semplici oggetti – ma non è una superficie umilmente tangibile un buon punto di partenza per provare a spiccare un salto verso l’alto?
La storia, sapientemente rimescolata con salti temporali, è quella di tre alpinisti in fatale salita su una parete nord. Non si tratta di tragedia, nonostante il finale (più tragedia è, semmai, quella di “Denti”) ma di dramma, con momenti comici (una lunga gag di seduzione ricorda un’altra scommessa di “Orbita”, “Un poyo rojo” dell’omonima compagnia argentina, visto giusto un anno fa).
Ciò che stupisce, perché è lo stupore il sentimento più spesso acceso in chi guarda, è la grande qualità del movimento, le trovate trasformistiche alla Fregoli, i giochi illusionistici, la ricostruzione degli ambienti montani, le complessità tecniche esorbitanti, il continuo modificarsi della prospettiva dello sguardo, a cui lo spettatore è invitato. E ancora: la capacità mimetica dei performer e, ancor di più, la scelta di andare oltre rispetto a quanto uno spettatore di danza può attendersi, regalando quel brivido di puro terrore empatico (lo stesso riservato al trapezista) quando Milano si lascia cadere dalla graticcia, imbracato e pronto a fermare la caduta a pochi centimetri dal suolo.
Se la danza va vista non solo con gli occhi, ma con tutto il corpo, la capacità di questo artista di attivare senza risparmio i recettori empatici in platea, senza pudori, senza trattenersi dall’uso di ogni strumento che è capace di maneggiare; e se la danza condivide con il teatro la “magia” nella costruzione di un ambiente più vero del vero, in cui trascinare il credulo, arreso sguardo dello spettatore, allora in “White Out” non possiamo che trovare piena giustificazione della sala gremita fino alla galleria del Teatro Palladium.
Se qualcosa si vuole consegnare al dubbio, questo potrebbe essere se quel “risveglio”, qui appannaggio esclusivo della simpatia con cui il nostro corpo vibra con quello del performer in un momento di crisi – e oggi di corpo e di risposta alla crisi non si può che continuare a parlare – , insieme al quale sentiamo il freddo ostile del crepaccio o la potenza della tormenta, se quella vibrazione resta poi sulla pelle, o no. E se la ricerca sul linguaggio si limiti all’efficacia dello storytelling o senta la necessità di rispecchiare in lessico e sintassi un’altra vibrazione, quella nella quale, usciti dalla sala torniamo a immergerci. E per un attimo il “vecchio”, astratto “Denti” e persino l’appassionata, errante, peregrina ricerca di Russolillo prendono un’imprevista luce di verità.
Denti
coreografia Piergiorgio Milano
con Piergiorgio Milano
consiglieri artistici Brune Campos, Claudio Stellato
musica “Mi par d’udir ancora” composta da Georges Bizet, cantata da Enrico Caruso; “Il walzer di un giorno” composta e cantata da Gian Maria Testa
si ringrazia Fre Werbrouck, Natalia Medina, Dancentrum Jette, La Raffinerie Bruxelles
durata: 15′
applausi del pubblico: 1′ 30”
Fàtico
progetto, coreografia, scrittura vocale, performance Irene Russolillo
creazione del suono, scrittura vocale, performance Edoardo Eansonne/Kawabate
disegno delle luci, direzione tecnica Valeria Foti
creazione dei costumi Marta Genovese
collaborazione alla drammaturgia vocale e vocal coaching Patrizia Rotonda
testi Ladan Osman, Adam Zagajewski, Annamaria Ortese, David Thoreau, Irene Russolillo
produzione ORBITA|Spellbound – Centro Nazionale di Produzione della Danza di Roma
con il sostegno per le residenze creative di Cango – Centro di Rilevante Interesse per la danza Virgilio
Sieni e Centro Coreografico Cazionale/Aterballetto,
con il supporto di Trac – teatri di residenza artistica contemporanea in Puglia
e la preziosa collaborazione di Spintime labs
durata: 45’
applausi del pubblico: 1′ 30”
White Out
creazione, direzione e coreografia Piergiorgio Milano
performer Javier Varela Carrera, Luca Torrenzieri, Piergiorgio Milano,
design luci Bruno Teusch
sound design Federico Dal Pozzo
soundtrack Piergiorgio Milano
costumi Raphaël Lamy, Simona Randazzo, Piergiorgio Milano
scenografia Piergiorgio Milano
Con l’indispensabile aiuto di Florent Hamon, Claudio Stellato
Un grazie speciale a Francesco Sgro, Matias Kruger
durata: 55’
applausi del pubblico: 2′ 50”
Visti a Roma, Teatro Palladium, il 18 e 21 febbraio 2024