Studiosa, dramaturg, curatrice nel campo delle arti performative, docente (oggi all’università Iuav di Venezia, dove insegna Curatela delle Arti Performative). Da anni è la più stretta collaboratrice teorica di Romeo Castellucci, con il quale lavora nei maggiori teatri e festival internazionali. Attualmente collabora, in qualità di dramaturg, anche con la regista argentina Lola Arias e l’artista cubana Tania Bruguera.
All’attività di mentoring di artisti e performer, affianca la cura di progetti multiformato dedicati alle arti performative.
Parliamo di Piersandra Di Matteo.
In occasione di due importanti nomine alla direzione artistica di altrettanti festival teatrali (Piersandra Di Matteo a Short Theatre e Tomasz Kireńczuk a Santarcangelo, che abbiamo intervistato qualche settimana fa), abbiamo pensato a un dittico di interviste attorno agli stessi temi: la direzione artistica e il contesto del territorio; 2020 anno senza teatro; pubblico e critica; un maestro della ricerca.
• La direzione e la curatela artistica e il loro contesto.
L’edizione 2021 di Short Theatre sarà co-diretta con Francesca Corona, in una sorta di passaggio del testimone. Cosa significa lavorare in due nella teoria e nella pratica delle scelte, degli indirizzi, del carattere di una direzione artistica?
Credo che la curatela non si possa esaudire nell’esercizio affermativo di un gesto autoriale. Anzi la intendo, nella mia pratica, come una critica dell’autorialità. Sono molto felice di condividere questo anno di transizione con Francesca. Lei è dotata di una peculiare intelligenza affettiva, una capacità di leggere i processi a lungo raggio, di non rimanere agganciata solo alla lettura del presente. Il nostro dialogo è stato da subito molto intenso, è un rapporto di prossimità intellettuale, di sintonia affettiva e coincidenza di intenti. Negli incontri avuti finora per pensare insieme l’edizione ‘21 di Short Theatre si è instaurata una complicità sorprendente. Curare un festival non significa comporre un palinsesto di opere, ma predisporre dinamiche di relazione. Aspetto tanto più centrale nel momento che stiamo vivendo. E questo è un pensiero condiviso.
Ai tuoi occhi, cos’è Roma nel 2021? Cosa rappresenta, che lingua parla, cosa chiede a una curatrice, a un’artista?
Per me Roma è una bellissima sfida. È una città che ho sempre amato molto e frequentato, non solo per il teatro. La sento attraversata da una grande energia, al contrario di quello che vuole la vulgata che ne stigmatizza l’eterna decadenza. È percorsa da correnti potenziali: è questa la città che vorrei considerare. Dal punto di vista delle pratiche teatrali e performative, negli anni recenti si sono verificate situazioni virtuose: il Teatro di Roma diretto da Giorgio Barberio Corsetti, Corona al Teatro India, le attività curate da Michele Di Stefano nella cornice e il sostegno di PalaExpo, la nuova direzione del Quarticciolo… Per non nominare l’apice a cui è arrivato Short. Sembra che questa città dal punto di vista teatrale-artistico sia sul punto di una fioritura incredibile, inedita: faccio fatica a immaginare una situazione analoga altrove in Italia, negli anni recenti.
Quando si può dire che un progetto curatoriale ha raggiunto una compiutezza? Quanto in alto, quanto in profondo si può puntare? E cosa deve lasciare dietro di sé?
È una bella domanda, difficile, forse persino impossibile. Credo che la compiutezza di un progetto curatoriale non debba essere una preoccupazione del curatore, almeno non è la mia. Penso la curatela, in particolare quella delle arti performative, come uno spazio in grado di generare inediti contesti di interazione, di sperimentare assetti cronotopici e relazionali che si dispongono alla trasformazione, all’accidentalità, ad accogliere forme di opacità e attriti. Una curatela performativa sì, ma nel modo in cui agisce, non nel senso che debba essere efficace; una pratica dunque che ha la forza di esercitare istanze trasformative in grado di modificare la realtà, fare mondi.
• Pubblico e critica
E tutto ciò è misurabile?
La curatela non si parametra con il numero di spettatori o con l’efficacia riscontrata dai critici sulle performance. Una curatela riuscita è quella in grado di creare una comunità di mondi in relazione, di corpi e oggetti, attivare la cura dell’attesa, dello spazio di socialità, dello stare, e più in generale di quei fattori che determinano e condizionano l’esperienza di condivisione. Che si rivela capace di dismettere la logica del giudizio. Questo non significa essere indulgenti rispetto al proprio fare, anzi, il contrario.
In che senso escludi la critica come parametro valutativo? Come credi che sia più conveniente, efficace svolgere quest’attività?
Non escludo tour-court la critica. Intendevo dire che se un critico “boccia” un certo numero di spettacoli programmati nel festival, non è detto che si debba ritenere quel festival fallimentare. La critica spesso si limita a questo, all’“analisi” di singoli lavori: credo sia necessario dotarsi di altri strumenti, sguardi complessi in grado di cogliere altre dimensioni in gioco nell’effervescenza temporanea del festival, la sua capacità di essere un ambiente abitabile e attraversabile secondo percorsi plurali. Certo dovremmo fare un discorso sul livello della critica in Italia in questo momento…
Immagini la possibilità di una critica che si sollevi sopra il lavoro del curatore o del direttore artistico e ne capisca il percorso? Credi che sarebbe più utile oggi una sorta di critica della curatela?
Sì, se intendi una critica che analizzi le tensioni in gioco nel montaggio che la curatela ha composto, il tipo di dinamiche che è stata in grado di innescare rispetto alle articolazioni temporali, alle relazioni con la vita urbana. Credo che sarebbe interessante potersi confrontare, come dicevo, con uno sguardo che sa esercitarsi sulla complessità che è un festival: capire il senso, ad esempio, della scelta di ospitare spettacoli considerati “fragili”, o espressioni artistiche di processi in formazione, riconoscere che i festival sono ambienti unici in cui fare spazio alla crescita degli artisti, legittimare i processi appunto.
• 2020, l’anno senza teatro
Quando Fabrizio Arcuri ha scritto, a inizio pandemia, «è l’edificio ad esser stato messo in crisi non il concetto di teatro», si riferiva alla riappropriazione di spazi aperti (era estate) o alternativi, ma a leggere quella frase staccata ebbi l’impressione che si trattasse di un’apertura più ampia. Castellucci, in un’intervista recente, a proposito del teatro in streaming afferma che «Non si dà, non è. Il teatro è solo quella cosa lì: non si può mediare», dove per “quella cosa lì” intende una cosa carnale, in presenza. Quanto occorre essere intransigenti? Quanto lo sarete per Short?
Una certa dosa di intransigenza, intesa come radicalità, è un tratto che mi contraddistingue. Essere radicali non significa non essere aperti e accoglienti, significa avere la forza di percorrere con rigore certe linee di tensione. Tra queste c’è senz’altro la consapevolezza che il teatro è uno spazio di relazione tra corpi; lo concepisco in presenza; rispetto al momento che siamo vivendo, penso che sia questo lo spazio da ripensare e rioccupare, anche con una mentalità e un’energia nuove, con modalità alternative, che magari ancora non abbiamo pensato. Ma, per intendersi, non sono sedotta dall’idea che il teatro possa essere sostituito dalla mediazione di un computer. Ci sono forme d’arte concepite precisamente per questo mezzo. L’esperienza performativa richiede un luogo, dei margini.
• Un maestro della ricerca
A proposito di margini: rileggendo, in occasione della morte di Taviani, “Uomini di scena, uomini di libro”, mi è balzata agli occhi, nelle primissime righe, quasi programmatica, una frase dal sapore copernicano, o forse solo consolatorio, secondo la quale la marginalità del teatro contemporaneo è una promozione, non una riduzione. «Il dislivello odierno fra prestigio culturale e valore marginale non è una crisi: crea energia potenziale». Ma se l’energia rimanesse potenziale? C’è il rischio che la libertà, in questo sistema, sia legata all’insignificanza?
Innanzitutto un pensiero va a Taviani. È stata una figura importante per me, i suoi libri sono stati dei punti di svolta per guardare il teatro. Un intellettuale del teatro come ce ne sono pochi, sentiremo la sua mancanza…
Pensando al margine non posso non convocare bell hooks, l’idea del margine come spazio di rivendicazione collettiva, dove creatività e immaginazione si fanno attivatori di forme di resistenza. Da lì si origina una coscienza critica del mondo contemporaneo e dei sistemi di dominazione che governano i corpi e le vite. Lo spazio performativo è un campo nel quale agire una critica al dominio, ripensare politicamente il nostro agire, decostruire delle forme di potere. Lì risiede la sua potenza di fuoco.
Una simile potenza di fuoco ha la stessa efficacia se, come sembra, restando all’interno della metafora, è carente quanto a gittata? Se cioè raggiunge, tutto sommato, così pochi cittadini? Non c’è un problema dell’accesso al fenomeno teatrale, performativo?
Forse bisogna rinunciare all’idea della quantità. O meglio, rendersi conto che il potere di fuoco che la performatività, intesa come agire politico, mette in campo passa attraverso dinamiche sottili, matura in spazi relativamente circoscritti ma può dare voce a rivendicazioni collettive planetarie. È una catena di vasi comunicanti. La questione dell’accesso è poi, certamente, un problema culturale di cui un curatore dovrebbe occuparsi, chiedersi chi è che “rimane fuori”, e perché.