Giacomo Ferraù narra senza affondi la storia di Kurt Gerron, ebreo vittima della Shoah, regista del film-inganno sul ghetto di Terezín
Secondo il mito di Ovidio, l’artista cipriota Pigmalione scolpì un nudo femminile così bello che finì per innamorarsene. Estenuato da alcune notti insonni accanto alla sua creazione, lo scultore si recò in preghiera al tempio di Venere. La dea della bellezza trasformò allora la statua di pietra in una donna in carne e ossa. Pigmalione la sposò, ponendo fine alle proprie angosce.
Il gruppo milanese Eco di Fondo è noto per trasformare miti e fiabe in pièce teatrali. Affronta così, con un approccio fiabesco, temi di carattere sociale, politico, storico, familiare, psicopedagogico o bioetico.
In principio fu “Orfeo ed Euridice”, regia di César Brie, convincente lavoro sull’eutanasia. Dopodiché la compagnia guidata da Giulia Viana e Giacomo Ferraù ha realizzato lavori come “La Sirenetta” (su tematiche gender), “O.Z” (sulla migrazione), “Dedalo e Icaro” (sulla disabilità), “Narciso” (su giovani e videogiochi), “La notte di Antigone” (sul caso Stefano Cucchi) solo per citare i più noti e riusciti.
Ciò che caratterizza la poetica di Eco di Fondo è la cura dettagliata della regia, la padronanza del mestiere attoriale, un’estetica tanto più immaginifica quanto più si approccia a temi spinosi.
Tuttavia gli ultimi lavori della compagnia hanno perso qualcosa dell’originaria freschezza. Pensiamo a “Sono solo nella stanza accanto” (scritto da Tobia Rossi e coprodotto con Caterpillar) stereotipato nella messa in scena, omologato nel linguaggio, con i soliti adolescenti problematici raggomitolati dentro un cappuccio. Pensiamo anche a “Patria. Il paese di Caino e Abele” (con MaMiMò) in cui il mito viene usato in maniera pretestuosa per lambire gli episodi chiave degli Anni di Piombo. Non c’è approfondimento in quel lavoro: solo una continua divagazione che rende generico l’approccio a un periodo tormentato e complesso della Prima Repubblica.
Una certa polverizzazione del testo la riscontriamo anche in “Pigmalione”, di scena a Campo Teatrale. Il monologo è interpretato da Giacomo Ferraù, autore della regia e drammaturgia con Giulia Viana. Pigmalione narra la storia di Kurt Gerron (1897-1944), medico, attore, regista cinematografico tedesco di origini ebraiche, che dopo varie vicissitudini fu fatto prigioniero dal Terzo Reich e internato nel campo di Terezín, in Cecoslovacchia. Da qui partivano molti convogli per i campi di sterminio. Negli anni della Shoah, vi furono internati 144mila ebrei: 33mila di essi vi morirono di stenti, fame e malattie.
Preso dal sacro furore dell’arte, Gerron fu tra gli ultimi ad accorgersi della svolta antisemita della Germania degli anni Trenta, lui che era stato decorato con la croce di ferro dopo aver partecipato alla Grande Guerra e che aveva recitato accanto a Marlene Dietrich nel film “L’angelo azzurro”. Trasferito ad Amsterdam, fu catturato dai tedeschi nel ‘43, tre anni dopo che Hitler aveva conquistato l’Olanda.
L’epilogo fu tragico. La propaganda del Führer commissionò a Gerron un documentario su Terezin che doveva convincere l’opinione pubblica mondiale che la discriminazione ai danni degli ebrei fosse una montatura. Il film doveva intitolarsi “Terezín: Un documentario sul reinsediamento degli ebrei”, o più semplicemente “Il Führer regala una città agli ebrei”.
Terezín fu ripulita e ridipinta. Furono creati dei giardini. Si finse la presenza di cinema e teatri. Si millantarono condizioni privilegiate per gli artisti ebrei ivi reclusi.
Per questa messinscena cinematografica che si sarebbe rivelata come una delle menzogne più colossali della storia, furono reclutate nel campo stesso 40mila comparse. Gerron asservì la propria arte ai dettami del nazismo. Di fatto, il film non raggiunse mai alcuna sala. Fu anzi quasi integralmente distrutto. Tutti coloro che avevano partecipato al progetto furono eliminati. Lo stesso Gerron morì ad Auschwitz nell’autunno del ‘44.
“Pigmalione” racconta il daimon di Gerron per il cinema. Lo fa anche grazie all’allestimento audiovisivo di Lorenzo Crippa, con immagini cinematografiche mute in bianco e nero, cornici, didascalie, e quel senso di accelerazione fuori contesto per le immagini di Hitler dagli anni Trenta in poi. Diciamo fuori contesto (e anacronistico) perché il passaggio dalla frequenza di 16 fotogrammi ai 24 fotogrammi al secondo che avrebbe creato l’effetto velocità per le immagini era avvenuto nel 1927, con l’avvento del cinema sonoro.
Avvertiamo costantemente gli effetti sonori di un proiettore d’epoca. Il disegno luci di Giuliano Almerighi crea atmosfere notturne, bagliori spenti, l’ambientazione dei cabaret dove Gerron si era esibito da giovane, oppure di una sala cinematografica.
Sulla scena Ferraù presenta il protagonista sotto forma di pallone gonfiato. È un espediente scenografico per agganciare il pubblico. È un riferimento forse all’egolatria di Gerron. Tuttavia ne richiama anche la taglia oversize, il che fa un po’ body shaming.
Una volta libero dell’ingombrante impalcatura (opera di Claudia Groppa), i movimenti dell’attore sono quelli di un direttore d’orchestra. Con l’aiuto di Chiara Ameglio, Ferraù dialoga con le immagini, mima le movenze di Hitler, esteriorizza il sacro furore di Gerron per l’arte. In più ci sono voci fuori campo, voci al megafono o all’altoparlante. Viene citato in continuazione tutto l’armamentario della tecnica cinematografica. Sono espedienti legittimi, ma qui, affastellati caoticamente, finiscono per frammentare la narrazione. Così annacquata, la drammaturgia procede con lentezza e incespica su sé stessa. Difficile entrare in temperatura per l’attore, figurarsi per il pubblico.
È un monologo ispirato a Terezin o a Gerron? La Shoah è la storia, o è soltanto un pretesto? Eco di Fondo si innamora di uno stile e lì si ferma. Raramente scorgiamo un affondo. Ci limitiamo ai frizzi e ai lazzi. La smania di osare con la regia soffoca la drammaturgia e ne inibisce il respiro. La mimica di Ferraù diventa fine a sé stessa, una sorta di esercizio di stile. Anche la voce implode con la recitazione, schiacciata dalla tecnica coreografica.
Vediamo molto, ma non siamo emotivamente coinvolti. Il dito indica la luna, e noi fissiamo il dito perché non scorgiamo la luna. Potremmo dire che l’attore resta fuori dal testo, se del testo avvertissimo una presenza concreta.
La Shoah rimane sullo sfondo. Se la scelta di focalizzarsi sul personaggio fosse invece ponderata, resteremmo a maggior ragione spiazzati: primo perché il protagonista, presentato come macchietta, non viene approfondito; secondo perché una tragedia immane come la Shoah non può mai essere usata come semplice fondale.
Eco di Fondo prova a narrare una storia e ci restituisce il fantasma di una caricatura.
Pigmalione creò una statua, se ne innamorò, e Venere le regalò il respiro. Eco di Fondo ha creato un linguaggio, se n’è innamorata e gli resta fedele. Ma senza un respiro drammaturgico, rischia di renderlo sterile, come la bellezza frigida di una statua.
PIGMALIONE
Produzione Eco di fondo
Spettacolo inserito nel progetto Una casa per l’Umano con il sostegno di Regione Lombardia e del Comune di Milano
con Giacomo Ferraù
regia e drammaturgia Giacomo Ferraù e Giulia Viana
disegno luci Giuliano Almerighi
allestimento audiovisivo Lorenzo Crippa
assistenti alla regia Sebastiano Bronzato, Calogero Scalici
distribuzione Elisa Binda
produzione Eco di fondo
con il sostegno di Fondazione Claudia Lombardi per il teatro
ringraziamenti
Teatro dell’Elfo e Campo Teatrale per l’ospitalità
Simone Faloppa per la consulenza cinematografica
Chiara Ameglio per la consulenza coreografica
Claudia Groppa per il costume
Umberto Terruso
durata: 1h 10’
applausi del pubblico: 2’
Visto a Milano, Campo Teatrale, il 2 dicembre 2023