Interpretata da Gabriel Byrne e Fionn O’Shea, arriva nelle sale italiane la biografia del drammaturgo irlandese, con un arguto Aiden Gillen nella parte di Joyce
“Da piccolo, il momento in cui fui più felice fu un giorno con mio padre, mentre facevo volare un aquilone. Ero sul pendio della collina e desideravo con tutto me stesso che rimanesse in cielo. Perché lassù c’era speranza, e il respiro, e la libertà. Quando atterrò, non c’era più niente”.
Con il film “Prima danza, poi pensa”, in uscita in questi giorni nelle sale italiane, il regista e sceneggiatore britannico James Marsh si accosta con sfrontatezza al drammaturgo irlandese Samuel Beckett (Dublino 1906 – Parigi 1989).
Un film su Beckett poco beckettiano. Una riflessione impietosa sulla vita e sui suoi significati. Una carrellata di rimpianti e occasioni perdute. Un addentrarsi nella coscienza affrontando i sensi di colpa. Meditando sulla felicità come qualcosa d’imponderabile e sempre sfuggente.
Il lungometraggio inizia in maniera surreale, con Beckett che nel 1969 scappa dalla Sala dei Concerti a Stoccolma durante la cerimonia che lo ha appena proclamato Premio Nobel per la Letteratura. L’autore di “Aspettando Godot”, vestito di tutto punto, raggiunge attraverso una scala sul palco una sorta di grotta, che diventerà la sua comfort zone. Vi incontra il suo alter ego in giacca e dolcevita. Il doppelgänger è il suo confessore, o meglio la sua coscienza critica. I due rifletteranno bonariamente su chi potrebbe essere il destinatario della somma vinta con il Nobel: Beckett intenderebbe appianare con una donazione i sensi di colpa per un’esistenza che gli sembra mal spesa proprio nell’atto in cui raggiunge il suo apice.
Inizia qui una serie di flashback in cui il protagonista ripercorre la propria vita, a partire dai primissimi ricordi: dal rapporto di complicità con il padre (Barry O’Connor) alle lacerazioni edipiche con la madre (Lisa Dwyer Hogg); dalla fuga a Parigi per sottrarsi alla morsa materna alla fascinazione allievo/maestro per James Joyce, incontrato proprio nella ville lumière; fino agli ammiccamenti con Lucia, figlia dello stesso Joyce.
Poi gli altri incontri: quello con il giovane partigiano ebreo Alfy Péron, che lo introduce alla Resistenza antinazista e ne muore dopo la deportazione in un campo di concentramento; quello con la bionda Suzanne, sei anni più grande di lui, che lo sposa e gli resterà accanto per tutta la vita; quello con Barbara Bray, giornalista e produttrice della BBC, con cui tradirà la moglie per moltissimi anni.
Il cuore del film è la memoria. Potremmo definirlo un flusso di coscienza, con il protagonista in contatto costante con il proprio io: ne ripercorriamo dunque la prima infanzia, l’educazione puritana, le seduzioni parigine, i celebri contatti artistici, la scoperta dell’amore, l’impegno nella resistenza francese, le amicizie, il denaro sempre insufficiente, il successo, i tradimenti.
Il demone dell’arte non è sviscerato. Più che lo scrittore dell’assurdo, qui vediamo agire l’uomo con la sua aura di maledizione, le sue frequentazioni bohémien, la sua solitudine, le inquietudini tipicamente novecentesche. La colonna sonora vintage è giocata su gradazioni romantiche.
Il film è girato con tinte monocrome sfumate e un uso della luce che ricorda la pittura fiamminga. Gli stacchi della macchina da presa ci restituiscono una garbata poetica della reticenza. Affiorano atmosfere solipsistiche alla Hopper.
I piani sequenza vagano alla ricerca di dettagli lirici. Le soggettive si perdono nella vertigine della natura. Inquadrature dal basso e carrellate laterali seguono con discrezione il protagonista nel suo dedalo esistenziale.
La storia affronta con brio i paradossi del cupo universo immaginifico di Beckett, tra inazione e lacerazioni, impegno civile e intrighi romantici.
Interessante la dialettica tra il Beckett buffo e austero dell’età adulta, interpretato da Gabriel Byrne, e quello arrogante, idealista e allampanato della giovinezza, interpretato da Fionn O’Shea.
Sandrine Bonnaire trasmette complessità alla luminosa moglie Suzanne. Maxine Peake si cala con disinvoltura nel ruolo della disinibita giornalista Barbara Bray.
Diverte Aiden Gillen nella rappresentazione di Joyce, cui conferisce quel minimo di humour e doppiezza maligna. Completano il cast Gráinne Good, interprete vivace della problematica figlia di Joyce Lucia, e Robert Aramayo nei panni di Alfy Péron, l’amico ebreo morto subito dopo la liberazione.
C’è qualche cucchiaino di zucchero nella sceneggiatura di Neil Forsyth, e timidi svolazzi su una tela tutto sommato convenzionale. Ma un film così difficilmente spiacerà agli amanti del teatro. In ogni caso, non aspettatevi il Beckett delle opere enigmatiche e paradossali. Troverete piuttosto la vita ordinaria con le sue contraddizioni, l’arte con le sue nevrosi, la fotografia pessimistica della condizione dell’uomo, i moti repressi dell’animo. E lampi di tragico umorismo.
“Prima balla, poi pensa”, recita il titolo. Si potrebbe obiettare che questo film non perde mai del tutto la testa. Ma forse è proprio questo il paradosso che l’autore ha voluto evidenziare: vivere la vita mai nella pienezza; lasciarsi sfiorare dalla felicità senza mai possederla; inseguire simulacri di piacere per ritrovarsi con un senso d’inanità. Soprattutto, collezionare occasioni perdute: quelle che nessun successo letterario, e neppure un Nobel, potranno mai risarcire.
PRIMA DANZA, POI PENSA. Alla ricerca di Beckett
(tit. orig. DANCE FIRST – A Life of Samuel Beckett)
un film di JAMES MARSH
con GABRIEL BYRNE, FIONN O’SHEA, SANDRINE BONNAIRE, AIDAN GILLEN, MAXINE PEAKE, BRONAGH GALLAGHER, ROBERT ARAMAYO, LÉONIE LOJKINE, GRÁINNE GOOD
scritto da NEIL FORSYTH
Distribuzione BIN FILM
durata: 1h 26’