Un festival nella capitale del Kosovo, sei giorni di spettacoli, raccontati in un reportage in tre puntate dal drammaturgo e attore Nicolò Sordo, per un racconto che va oltre il teatro
C’è un festival internazionale di teatro nel Kosovo, giunto alla sua sesta edizione, dove si fondono insieme l’impegno nell’organizzazione, il tanto lavoro collettivo e le diverse energie messe al servizio della cultura. Stiamo parlando di Prishtina International Theatre Festival con la direzione artistica curata da Doruntina Alshiqi. Sei sono stati gli spettacoli allestiti durante il festival, uno al giorno fino alla chiusura con la cerimonia di premiazione dell’ultima giornata.
L’Institut del Teatre de Barcelona ha presentato “I Departed” il primo giorno del festival. Il giorno dopo è stata la volta di “The M Word” di Self-Made e Urban Theatre dalla Macedonia del Nord. Il teatro cittadino Bekim Fehmiu di Prizren ha presentato “Andorra” il terzo giorno. Il quarto passaggio ha visto protagonista l’Italia con l’opera di Francesco Bressan e Marina Romondia, “I Don’t Wanna Forget”. Mentre la compagnia montenegrina Korifej Theater, Culture Center Kolain, Culture Center Bijelo Polje ha presentato “Ifigenia” il quinto giorno. Per poi chiudere con il Teatro Nazionale del Kosovo con lo spettacolo “Muslimani”.
Il Prishtina International Theatre Festival è nato nel giugno 2017, nei locali dell’AAB Theatre “Faruk Begolli”, che opera all’interno dell’AAB College di Pristina.
Il festival di quest’anno ha reso omaggio al regista kosovaro Burbuqe Berisha, che è stato direttore artistico del festival negli anni precedenti ed è morto un anno fa.
L’obiettivo della manifestazione è far conoscere produzioni teatrali di alta qualità da tutto il mondo, incoraggiando anche i partecipanti a condividere opinioni, idee, progetti, esperienze e collaborazioni future.
Testimone ed inviato speciale alla rassegna è stato Nicolò Sordo. L’autore di “Ok Boomer“, vincitore del Premio Riccione “Pier Vittorio Tondelli” under 30, oltre ad essere l’interprete protagonista di “I Don’t Wanna Forget”, ha raccolto una serie di frammenti e testimonianze nella doppia veste di osservatore e di partecipante al Festival, creando così un reportage che ci trasporta, “con uno zainetto da piscina e un unico paio di jeans”, nel cuore e nell’esperienza viva di questo evento.
Sordo – in questo reportage che abbiamo diviso in tre puntate – riesce a delineare e definire la geografia di quei luoghi, i volti e la forma di alcune di quelle emozioni vissute a diretto contatto con le persone che ha (ri)conosciuto con un linguaggio incontaminato e diretto, con la curiosità di chi riesce a fare amicizia da subito aprendosi all’altro. Ne viene fuori una narrazione fluida dove il teatro e la vita coincidono.
Just do it – di Nicolò Sordo
Non sono mai tornato da nessun posto.
Credo che sia questa la principale difficoltà nell’amarmi.
Non sai mai chi ti trovi davanti quando ci sono di mezzo io.
È un discorso che ha molto a che fare con il mio bisogno di camicie hawaiane.
Non l’ho capito da solo, me l’ha detto Dimitrios, un mio amico attore mentre facevamo GTA nel traffico di Atene con lo scooter tornando da un provino: “Siamo giovani, belli, sbarbati e con una camicia hawaiana sembra che la vita stia dalla nostra parte”. Sembra.
Mi trovavo ad Atene per l’ultimo check della traduzione in greco del mio testo “Ok Boomer”, ma forse era una scusa bella e buona per andare a farmi un giro con la speranza di non tornare.
E per fare il primo bagno in acqua salata della stagione.
Poi a Salonicco a parlare con una persona, a Skopje a mangiare una pizza margherita con ketchup e maionese al mercato centrale vicino alla moschea, a Prishtina per un festival di teatro.
Con uno zainetto da piscina e un unico paio di jeans.
Se sei triste e ti manca l’allegria, mettiti una camicia hawaiana.
Soprattutto se non riesci a tornare da un posto e sai che una parte di te davvero non tornerà più, mettitela.
Forse in realtà è una cosa che mi ha insegnato mia madre negli anni Novanta: quando era triste, si comprava qualcosa. Forse perché sapeva che non sarebbe mai tornata giovane, e fare un figlio a vent’anni vuol dire comunque perdersi qualcosa.
Un giorno ero triste io, che ero il figlio che aveva fatto, doveva essere il ’99 e dovevo avere sette anni e doveva esserci una guerra in corso e mia mamma mi ha comprato il cd di quella canzone “Il mio nome è mai più”, ve la ricordate?
Il mio nome è mai più, mai più, mai più.
Parlava del Kosovo.
Anche qui in Kosovo i ragazzi quando sono tristi si comprano qualcosa.
Sono impeccabili, vestiti tutti firmati, anche se il loro gusto per la moda è un po’ retrò.
Non lo dico per storcere il naso: è che noi adesso odiamo il fast fashion, ci piacciono le cose di seconda mano, i vestiti della nonna e a loro piacciono le cose di marca.
Si sentono al sicuro con le cose di marca.
Ho provata la stessa sensazione con il mio primo paio di Converse.
Le più stilose sono due ragazze gipsy che vendono dei fiori ai lati della strada accatastati su una pira sacra di cartone, a braccia incrociate, cappellino e maglia della Nike: “Just do it”.
Tre parole che hanno fatto più soldi di qualsiasi cosa.
A proposito di parole: “grazie” si dice “faleminderit” in albanese e guai a te se dici “Hvala”, che è serbo.
Qualche giorno prima ero stato in Macedonia del Nord, dove grazie si dice in un modo simile a hvala e mi sono confuso e non è stato piacevole.
Stavo per guastarmi la colazione, che qui al “Be Happy” è a base di caffè, sigarette e patatine fritte.
Mi dà l’aria che le ferite siano tutte aperte e non se ne sia chiusa neanche una, ma se parli con la gente loro ti dicono che si sono lasciati tutto alle spalle. Boh, io non ci credo. Sarà che sono un tipo rancoroso.
I taxi illegali costano 70 centesimi e si chiamano col dito. Prima della pandemia, 40-50 centesimi.
È la prima cosa che ho imparato in questo lunapark di distributori di benzina a Fushe Kosove.
Non sono mai andato così tante volte a un distributore di benzina senza fare benzina come in Kosovo.
La mia prima notte ero in un 24 ore e volevo raggiungere Prishtina.
Ho provato ad arrivarci a piedi ma sono quasi caduto in un tombino, allora ho preso il taxi.
“Put the finger” e via.
Le vie principali di Prishtina hanno gigantografie di Bill Clinton, di Ibrahim Rugova (il Gandhi di queste parti) che ha una statua anche davanti alla cattedrale di Madre Teresa di Calcutta (dove le ragazze si fanno i selfie per ig) e con occhiali e impermeabile sembra un X-Men.
A qualche metro da lui, una vecchia signora velata e con mascherina chiede la carità in un modo così bello che mi commuove: regge un vassoio d’argento rivestito con un lenzuolo bianco immacolato e le monete quando cadono non fanno rumore. Ringrazia solo con gli occhi.
Il 90% della popolazione è musulmana.
Il MacBook Pro con cui sto scrivendo costa esattamente lo stesso che in Italia, seppur lo stipendio medio in Kosovo sia di 300 euro al mese.
La nazione ha un Pil così basso che alcuni non lo considerano neanche uno stato (tipo la Spagna e la Grecia per restare in zona), ma vanta il maggior numero di popstar: Dua Lipa, Rita Ora, Ava Max, Bebe Rexha, Era Istrefi.
Sono pochi ad avere il passaporto. Soprattutto se sei povero puoi andare solo nei Balcani, in Turchia, a fare la luna di miele alle Maldive o a Dubai. Ma se sei povero forse non ci vai.
C’è l’euro. Ma si accettano anche altre monete.
Dato che ho tanto tempo libero, decido di entrare in Kosovo con un pullmino dell’asilo con “Amalfi” scritto sopra dalla Macedonia del Nord, che vuole un sacco entrare in Europa.
Ci vuole entrare così tanto che le guardie doganali ci fanno scendere e passare la frontiera a piedi per andare in Kosovo. Se proprio ci volete andare, andateci sulle vostre gambe.
Dopo il controllo passaporti dobbiamo metterci in fila contro un muro sotto un sole cocente continentale e poi possiamo andare che se tutto va bene arriviamo in tempo per l’ora di cena.
Io non capisco tanto cosa sta succedendo e mentre fisso il cartello “vietato portare armi con sé” un ragazzo mi sorride e mi dice: “Welcome to the Balkans!”.
Il pullmino va avanti spingendo una scatolina e appena non la si spinge perde velocità e dobbiamo fare delle soste o va in pappa il motore.
Ai lati della strada qualche distributore di benzina e montagne di terra con su scritto “VENDESI” che nessuno vuole comprare.
Per arrivare a Prishtina passiamo una lunga fila di motel e concessionari d’auto. Una fila interminabile.
Strano col fatto che non c’è turismo. Un tassista mi spiegherà poi che sono posti che servono per “andare a dormire un paio d’ore, ti danno la bottiglietta d’acqua, c’è il wifi”.
In Kosovo non è previsto il reato di tratta di esseri umani legati alla prostituzione perché le sex workers sono del posto, quindi sono “volontarie”.
Molti cani randagi scorrazzano in gruppi per le strade, e apprendo da una ragazza che la rabbia in Europa dell’est non è ancora stata del tutto debellata, ma ormai li ho accarezzati.
Studiare costa tantissimo, lo scopriamo mentre cerchiamo un modo per arrivare al Newborn, il monumento della rinascita del Kosovo. Lo immaginavamo un sacco più grande di quello che è.
Sembra quelle scritte turistiche tipo “AMSTERDAM” a caratteri cubitali.
Eppure “newborn” vuol dire un sacco di cose per loro.
Ci scorta fin là Ilirjada, una studentessa di 19 anni iscritta a filosofia che l’inglese se lo studia da sola, perché studiare anche inglese costa troppo.
Non so quanto, ma probabilmente costa davvero tanto studiare ad AAB College, che è anche la sede del Prishtina International Theater Festival, il motivo per cui io e Marina siamo qui.
AAB College ospita facoltà di varia natura, due sale teatrali e un’emittente televisiva, ATV, una delle più seguite in Kosovo.
Sul sito leggo che “L’AAB College è il primo istituto di istruzione superiore privato del Kosovo. […] è stato fondato dopo la guerra in Kosovo, quando sono apparse nuove circostanze socio-economiche e culturali per i cittadini kosovari, mettendo fine a un lungo monopolio dell’istruzione nel nostro Paese”.
AAB College si trova a Fushe Kosove (che prima della guerra era un solo un villaggio dove la maggior parte della popolazione era serba), una cittadina a 6 chilometri da Prishtina che un tassista ci dice essere stata costruita in 15 anni, dove ci sono almeno 20 centri commerciali, uno in fila all’altro, che costeggiano una strada che sembra una highway americana. E io sono ossessionato dai centri commerciali, sono il mio incubo. In Grecia non hanno mai preso davvero piede, ad esempio, perché c’è bel tempo e tanto sole, ma da noi c’era un periodo che il sabato non si sapeva cosa fare e si andava al centro commerciale, “anche solo a vedere”.
L’America è qui con tutti i suoi eroi, si mangia praticamente solo nei fast food e la cucina tradizionale (che è buonissima) è quasi rinnegata, e una delle strade principali di Prishtina è dedicata a Bill Clinton, oltre alla gigantografia di cui abbiamo già parlato prima.
Al Be Happy, il ristorante dove andiamo più spesso a fare pranzi e cene, faccio amicizia con il cuoco, Eli: ha dei begli occhi azzurri tipo i miei e sa l’italiano perché è stato in Germania sette anni e l’ha imparato lavorando con dei calabresi di Crotone.
Qui, dalla guerra del ’99 in poi, tutti sono stati via in media sette anni.
Quando mi vede con Marina Romondia, la regista di Cie Bressan/Romondia, che tiene in braccio il suo bambino, pensa che sia mio e mi chiede: “Ma che ci sei venuto a fare qua con la moglie?”, con un sorriso che vuol dire tante cose.
Gli unici altri italiani che passano ogni due settimane sono due piloti, uno del nord e uno di Napoli. Stanno in un albergo di lusso. Fanno la vita da piloti, mi dice Eli. Ma almeno può praticare con loro un po’ di italiano.
Arriviamo al PITF a festival già iniziato, la sera dell’11 maggio, e il primo che conosco, all’after party, è Fatos Berisha, che oltre ad essere un regista di cinema e teatro insegna ad AAB College.
Direi che è ora di parlare del festival, il motivo per cui siamo qui.
— continua nella prossima puntata —