L’ultimo Atto, tutto italiano, di Latella alla Biennale di Venezia

La Lolita di Biancofango (photo: labiennale.org)|Una cosa enorme (photo: labiennale.org)
La Lolita di Biancofango (photo: labiennale.org)|Una cosa enorme (photo: labiennale.org)

Solo teatranti italiani nel Quarto Atto, l’ultimo, della direzione artistica di Antonio Latella alla Biennale Teatro 2020 di Venezia, e un unico tema, la censura, declinato sul palco da ventisette prime assolute. Una scelta presa da Latella ancor prima che la pandemia dettasse le sue regole, e voluta per dare luce a quel cono d’ombra in cui navigano alcuni artisti italiani della scena contemporanea, sia nel nostro Paese che all’estero.

Da qui NASCONDI(NO), come è stata chiamata questa 48^ edizione del festival, titolo che può essere anche l’emblema di quella sofferenza espressa durante il lockdown, e sentita ancora oggi dai lavoratori dello spettacolo: come non ricordare quel “noi non siamo invisibili” gridato lo scorso giugno in piazza Santi Apostoli a Roma?
Qui la negazione finale messa tra parentesi diventa garante di un atto liberatorio, un luogo protetto del venire fuori, del non-nascondersi, che lascia la piena libertà agli artisti di andare a minare, con il loro potere creativo, la stabilità di “ordini” precostituiti e predominanti contenuti nella censura.
Ma veniamo agli spettacoli visti di questa grande collettiva teatrale.

Per Giuseppe Stellato, artista visivo e scenografo, questa Biennale è stata l’occasione per portare a termine una trilogia iniziata nel 2017, in cui il protagonista assoluto della scena è una macchina di uso comune, ogni volta diversa e apparentemente innocua: una lavatrice in “Oblò”, un distributore di snack in “Mind the gap” – presentati in coppia alla Biennale Teatro nel 2018 – e uno sportello bancomat in “Automated Teller Machine”, terzo e (forse) ultimo capitolo di questo percorso.
Quelle di Stellato sono delle installazioni-performance dove l’oggetto e il suono, distorto e corrosivo, e in ultima battuta l’immagine video, sono gli unici traghettatori della “narrazione”. La struttura e l’estetica è simile in tutte e tre le installazioni: l’oggetto occupa il centro della scena, è frontale allo spettatore, e si fa guardare nella sua pacifica identità domestica, come semplice ausilio dell’uomo. Poi arriva il cortocircuito, la macchina cambia le carte in tavola assumendo una vita propria, e s-maschera sia in modo simbolico, che drammaticamente crudo la realtà circostante. È lei la “voce narrante” in grado di scoperchiare realtà scomode; la lente d’ingrandimento che getta luce su ciò che nessuno vede o vuole vedere, su ciò che nessuno ricorda o vuole ricordare. La macchina apre il vaso di Pandora, ne raschia il fondo lasciando emergere tutta l’efferata violenza di cui l’uomo è sia artefice che spettatore.

I Biancofango hanno scelto invece di tuffarsi nel capolavoro di Vladimir Nabokov e di riemergere con “About Lolita”, dove quell’approssimazione prima del nome è indicativa di un’estrazione più che di una riscrittura, come quando si scava in una miniera per tirarne fuori dei minerali preziosi da lavorare, che nel caso dei Biancofango sono il piacere e il dolore. Quanto piacere si nasconde nel dolore? Quanto dell’uno c’è nell’altro? Se lo sono chiesti Francesca Macrì e Andrea Trapani (sul palco nel ruolo di Quilty, insieme a Francesco Villano nel ruolo di Humber Humbert, e Gaia Masciale in quello di Lolita).
D’altra parte come si fa a pensare all’insopprimibile desiderio di Humbert senza sentirne lo struggimento e la morsa esiziale. Come si fa a pensare all’avido desiderio di Lolita senza ascoltare l’eco della sua gelida e aggressiva noncuranza.
È su questa lega metallica che i Biancofango allestiscono “About lolita”, parlando allo spettatore attraverso lacerti letterari, musicali e teatrali assemblati in un’unica partitura. Le immagini video sono affascinanti e di grande potenza evocativa. Lolita appare nella sua ambivalente essenza di ninfetta, potenza divina di boschi e delle acque, e di sirena, fatale creatura che avvince e incanta, con la pelle adamantina, e i capelli roventi spazzolati come fili d’erba ora dal vento, e poi agitati come tentacoli dall’acqua marina; una venere botticelliana, simbolo di amore, di bellezza e di erotismo suo malgrado.
Il romanzo di Nabokov rimane come tessuto connettivo, come volto normativo e iconico. Tutta la scena si svolge in un campo da gioco, quello del tennis, tanto amato dalla ninfetta del romanzo; del resto il rapporto tra i tre personaggi non è stato forse un campo di gioco fatto di diritti e rovesci, con attacchi e difese, di corse e cadute, con palle troppo corte o troppo lunghe, e colpi taglienti e inaspettati?
Nel campo da tennis dei Biancofango piacere e dolore giocano un doppio senza regole, in cui realtà e illusione entrano in collisione, in cui la differenza tra il piacere pensato e il piacere agito si rivela in sconfitte affettive, lavorative, esistenziali; dove la vera sfida per Lolita, affamata di rabbia e di vita dolce e salata, è quella con se stessa: dall’altra parte della rete c’è Lo e Lola e Dolly e Dolores, e la partita è ancora tutta da giocare.

È sembrato invece un po’ pretenzioso e confuso “eh!eh!eh! Raccapriccio” di ASTORRITINTINELLITEATRO ispirato ai “Fiori del Male” di Charles Baudelaire.
Alberto Astorri e Paola Tintinelli sono una di quelle coppie teatrali che ami o odi. In “Raccapriccio” sembrano dei circensi della parola, ma a volte la loro iperbole, le deformazioni, la cifra decadentista diventano spossanti, tanto che le loro scalate immaginarie finiscono col perdere per strada l’elemento poetico.
Non lo so, ma per chi scrive, il loro teatro “assurdo” o “insolito” non è stata “la rivelazione di qualcosa di nascosto”.

Una cosa enorme (photo: labiennale.org)
Una cosa enorme (photo: labiennale.org)

Sembrava appassionante sulla carta, ma poi è sembrato non ancora del tutto a fuoco sulla scena, “Una cosa enorme” di Fabiana Iacozzilli, che ha scelto di affrontare il tema dell’autocensura attraverso quello della maternità. Un tema di indubbio interesse, almeno da un punto di vista femminile. Spesso la scelta di diventare o non diventare madre è costellata da una serie di dubbi amletici, da un mondo sotterraneo di emozioni in cui convivono desiderio e rifiuto, paura, volere e dovere, senso di colpa, rimpianti, a volte pentimenti. Una scelta privata su cui spesso gravano convenzioni e convinzioni; quante donne per esempio si sono sentite spinte in un angolino da un “tu non puoi capire perché non hai figli”, come se la mancata maternità le rendesse meno capaci, meno complete, meno donne?
Il lavoro della Iacozzilli è diviso in due atti, che presentano due prospettive diverse dello stesso tema. Il primo è la rappresentazione immaginifica della convivenza tra il desiderio e il rifiuto della maternità; il secondo invece indaga, in modo approssimativo e con poca originalità, il rapporto figlia-padre, dove l’età avanzata rende il padre nuovamente bambino, mentre la figlia è costretta a prendersene cura fino alla sua morte, come se ne fosse la madre, una sorta di genitrice involontaria.
Rimane invece impressa nella memoria l’immagine con cui si apre il primo atto, in cui la Iaccozilli se ne esce da un interno domestico quasi post-apocalittico, indossando una pancia gravida, nuda, enorme come un otre. È un’immagine eloquente, interrogativa, visionaria. La pancia è la sua maschera, un pesante contenitore di verità. Sembra una bozzetto burtoniano quella piccola donna, tutta spaventata, con la pancia talmente esagerata da renderle estenuante ogni più piccolo movimento, ma che non le impedisce di imbracciare un fucile e fare fuoco sul nugolo di cicogne che circondano la sua casa, e buttare l’impallinata che cade a terra sopra l’enorme cumulo di carogne che si erge dietro le sue spalle. Un preludio accattivante, che man mano però perde vigore, anche a causa di tempi eccessivamente dilatati, che pur rispondendo a una certa logica (la lunga gestazione mentale e fisica, la procrastinazione della scelta ecc…), non trovano il sostegno in azioni particolarmente significative.

Ha ricevuto una calorosa accoglienza il Teatro dei Gordi con “Pandora”, ideato e diretto da Riccardo Pippa. Il vaso scoperchiato in questo caso è quello del wc: tutta la scena si svolge all’interno di un bagno pubblico, che potrebbe essere quello di una stazione ferroviaria o di un aeroporto per le personalità “variopinte”, e a volte un po’ sgangherate che lo attraversano. Ognuno lascia dietro di sé un piccolo frammento della propria quotidianità, insieme ai propri umori, alle proprie viscere e qualche rifiuto di poco conto.
Il bagno è dunque il buco della serratura da cui guardare, o lo specchio su cui riflettersi; sicuramente un luogo di passaggio, uno spazio umorale e metaforico, un luogo di nudità, di mascheramento e smascheramento. I Gordi gettano infatti con “Pandora” una bella secchiata di ironia sui nostri mascheramenti quotidiani, spingendo a volte il piede su una rappresentazione macchiettistica.
“Pandora” è uno spettacolo muto, in cui la comicità è costruita sulla mimica e sul travestimento più che sulla parola. Anche se i momenti corali in cui Claudia Caldarano, Cecilia Campani, Giovanni Longhin, Andrea Panigatti, Sandro Pivotti e Matteo Vitanza cantano a cappella sono irresistibili. Lo humor esilarante è fatto di nevrosi, di incontri e scontri, di attimi sospesi, di piccoli e a volte violenti disastri quotidiani. Come nelle migliori commedie, tutto è trattato con leggerezza e rigore, e fa ridere; gli sketch sono serrati, spassosi, e nessuno dei personaggi è esente da mettere in ridicolo sé e gli altri.

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