Radicalmente Castellucci. Di Parsifal, bellezza e spettacolo

Il Parsifal di Castellucci (photo: Rocco Casaluci)
Il Parsifal di Castellucci (photo: Rocco Casaluci)
Il Parsifal di Castellucci (photo: Rocco Casaluci)

Uno spettacolo come il “Parsifal” wagneriano messo in scena da Romeo Castellucci è un oggetto da riflessione totale. O forse, ancor di più, è materiale di discussione e confronto.
Senza pretendere di dare una voce definitiva ad un’operazione che non cessa di destare interrogativi e aggregare fazioni, metteremo oggi la nostra parte di riflessioni.

Come avevamo anticipato, e come un po’ dappertutto si è letto in queste settimane, il “Parsifal” di Castellucci è andato in scena al Comunale di Bologna segnando in un punto solo due occasioni: il centenario della prima rappresentazione fuori Bayreuth dell’ultima opera wagneriana (avvenuta proprio a Bologna), e l’inaugurazione del ciclo di manifestazioni e incontri dedicati alla figura del regista cesenate “La volpe disse al corvo”.

La produzione era già andata in scena al Teatro La Monnaie di Bruxelles nel 2011, e non presenta particolari cambiamenti, se non in parte del cast vocale.
La direzione d’orchestra è stata affidata a Roberto Abbado, che ha ricevuto gli applausi più generosi a esecuzione conclusa. L’orchestra, adattata in una buca che non è il golfo mistico del Festspielhaus, ha dovuto fare a meno di parte degli archi, scelta che alcuni hanno potuto giudicare come lesiva degli studiatissimi equilibri della partitura, e che senz’altro ha strozzato un po’ le variazioni coloristiche che essa richiede.

Ma per noi è la regia il motivo di maggior interesse della produzione. Grande indipendenza e fiducia nel proprio pubblico ha dimostrato il teatro bolognese nel voler riproporre una messinscena che, a una platea italiana piuttosto severa riguardo alle innovazioni, avrebbe potuto sembrare azzardata. Su questo più che su altro si sono incrociate le critiche del web, anche tra coloro che in passato si erano maggiormente interessati a punti di vista puramente musicali.

La forza di Castellucci sta proprio in questo: nel coraggio della radicalità. Radicalità distruttrice e creatrice.
La distruzione è quella (forse necessaria, direbbe un ascoltatore stremato da quanto sovra e sottotesto soffochino l’ascolto) dell’intricata messe di simbologie che l’opera non solo ha raccolto attorno a sé nel tempo, ma che proprio conteneva in nuce.
Si tratta della parte più discutibile dell’operazione, giacché significa di fatto ignorare – come atto volontario – un’intera tradizione interpretativa.
Scrive Piersandra Di Matteo, dramaturg della produzione, nel programma di sala: «Il patto è neutralizzare ogni simbolica impostata sulla logica del rinvio», parlando di una sorta di taglio verticale della lettura registica.

Oltre al significato di lettura profonda, possiamo chiamare “taglio verticale” l’incisione che il regista fa fino a toccare il suolo duro alla base dell’opera, per ricominciare a co-struire da lì, dal testo (qualunque cosa esso sia…).
Il finale del primo atto è anche più di un saggio dell’azione di Castellucci. Se il graal in quanto oggetto è assente dalla scena (rimozione della tradizione), la scena dell’agape mostra un tentativo estremo di sostituzione, che è una rinuncia vera e propria.

Rimozione non solo della tradizione, ma dell’oggetto, del contesto, dello spazio scenico. Un sipario bianco, segnato solo da una virgola (o da un apostrofo) scorre a chiudere il palco, inquietante. Mosso da onde quasi d’acqua – ma è luce – cela l’oggetto e le azioni dei cantanti al pubblico. Qui è l’insostenibile peso dell’ostensione a richiedere e a creare una censura. Ma se condividiamo la difficoltà di cedere alla rappresentazione di un ri-mando così denso per mezzo di un pezzo d’attrezzeria teatrale, va anche detto che la scelta del non mostrare rischia di andare soggetta alla critica della comodità, e genera l’insoddisfazione della promessa non mantenuta.

Su questa linea, l’eliminazione della lettera e del simbolo tradizionale prosegue, in forme meno schiette ma non meno evidenti: così come niente graal e niente rito, niente lancia, niente cigno colpito, niente seduzione delle fanciulle-fiore, che cantano in barcaccia sostituite scenicamente da mimi, nell’ambiente squisitamente avanguardistico del secondo atto: una stanza bianchissima, in cui l’inclinarsi spaventoso di un lampadario richiama la foresta che, assediata, marcisce nel primo. E praticamente nessun rapporto tra i personaggi. Persino l’amplesso tra Kundry e Parsifal è solo in proiezione, mentre i cantanti appena si toccano.

La rimozione e quindi la ricostruzione, appunto.
La qualità più notevole che ha mostrato Castellucci nella sua vicenda artistica è stata probabilmente l’assoluta fedeltà all’immagine, intesa e captata nel momento del suo primo apparire, nella sua ‘sorgività’.
C’è una dimensione enormemente visionaria in senso letterale nel suo lavoro, tanto è vero che per descrivere la regia di questo “Parsifal” si affida ad una specie di memoriale della creazione tutto poggiato sul verbo “vedere”. Se è possibile far convivere l’estrema puntualità intellettuale con la totale fedeltà a questa scaturigine quasi mistica, Castellucci ne è maestro.

Dunque questa pars construens sostiene la purezza dell’ispirazione (usiamo la Parola) con il tentativo di un cristallino rimpiazzo di simboli – ne inventa (ne trova) di nuovi.
A prima vista parrebbe non aver potuto scegliere un testo migliore per questa operazione, anche per ragioni involontariamente utilitaristiche, come la lingua tedesca che qui, non altrettanto in Belgio, incide poco o nulla sul significato percepito dal pubblico, e sopporta meglio la contraddizione degli atti.

Purezza e cristallinità sono due aggettivi che insieme richiamano la chiarezza, la nettezza dei confini, la luminosità. E così appare il palcoscenico di questo Parsifal. Luminoso anche quando è buio, netto anche quando c’è un tulle ad ammorbidire le sagome.
Il piano estetico è quello più evidentemente trionfatore. Dai quadri in movimento della selva, palpitante di vita ma destinata alla morte, alla macchineria postmoderna che mostra la nudità della scena verso il finale nel primo atto, con algide batterie di tubi al neon che inondano anche la platea, alla chiarità da camera operatoria del secondo, fino alla schiera in emozionante progressione del terzo. Il tutto cuce insieme un percorso che dalla selva, attraverso l’attività dell’uomo esemplificata dalla lista di veleni proiettata sul sipario tra primo e secondo atto, porta al luogo (sociale) di una città capovolta, in cui non rimane che un singolo stelo di tutta la selva decaduta, e infine un singolo uomo.

L’effrazione dei simboli rimpiazzati richiede un’attività ben più laboriosa da parte dello spettatore, prevenuti fra l’altro dall’ottimo libro di sala. Dal giudizio sulla convenienza e validità di quelle nuove figure discenderebbe gran parte del giudizio su questo lavoro. Su cui tuttavia, a prescindere da questo, un paio di dubbi restano.

Fatta salva fino a prova contraria l’onestà intellettuale di un’operazione di sradicamento così totale, fatta cioè salva la necessità teorica (e non personale), fatta salva la licenza arti-stica che mette nelle mani del regista l’intero universo del testo (e su questo tanti non sa-rebbero d’accordo), quello che lascia il dubbio è, infine, se il lavoro intellettuale effettivamente chiuda il cerchio dell’efficacia, salendo davvero sul palco come opera, opera-spettacolo. Regga, per dirla in termini schietti, la scena.

E qua, a parere di chi scrive, emergono delle lacune. Perché le idee registiche (restiamo volutamente a un livello basso), benché a un primo sguardo vive e molteplici, sono insufficienti. Meglio: molteplice è la ricercata simbologia, ma non sufficiente lo sforzo di visione totale e la capacità di collegamento. In ciò vi è uno sfasamento, una crisi: non è riempito il tempo della rappresentazione.
Si teme davvero di essersi imbattuti nel più antico dei paradossi della messinscena, ossia l’assenza della regia intesa come riempimento/riemersione (che è diverso da ‘copertura spaziale’ della durata), come sguardo non solo generale, ma particolare e talvolta minuzioso, che si dipana negli atti, nelle battute, e che può chiedere di essere nelle note, e persino negli spazi fra le note. Che può certo procedere per larghe campate come di un ponte, ma non può illudersi che, all’interno delle stesse, l’arco possa essere un illimitato scorrere di pietra, un monolito senza commessure, senza svolgimento.

Così la lunga camminata del terzo atto, in cui i protagonisti e il coro, mescolati ai figuranti, procedono camminando in proscenio sopra un tapis-roulant per circa mezz’ora, pur nell’emozione estetica che suscita, risulta innegabilmente pesante. L’immagine rimane splendida, ma così ripetuta da farsi, paradossalmente, afona.

Il coraggio di cui parlavamo sopra ha spinto la radicalità forse troppo avanti, ma non nel senso di una distruzione troppo efferata, anzi in quello di una costruzione incompleta, rada. Non è disinteresse verso il pubblico, come qualcuno potrebbe accusare, sembra piuttosto una sfida mancata nei confronti del materiale testuale.

La scelta del Parsifal, con tutte la sue simbologie originarie, ha mostrato che, seppure invecchiate, esse sono difficili da sostituire, e larghe e forti le spalle di oltre un secolo di tradizione e interpretazione. E così quelle di Richard Wagner.

PARSIFAL
Interpreti:
Amfortas Detlef Roth

Titurel Arutjun Kotchinian

Gurnemanz Gábor Bretz

Parsifal Andrew Richards

Klingsor Lucio Gallo

Kundry Anna Larsson

Primo Cavaliere del Graal Saverio Bambi

Secondo Cavaliere del Graal Alexey Yakimov

Primo scudiero Paola Francesca Natale

Secondo scudiero Alena Sautier

Terzo scudiero Filippo Pina Castiglioni

Quarto scudiero Paolo Antognetti

Fanciulle fiore – gruppo I
Helena Orcoyen
Anna Corvino
Alena Sautier

Fanciulle fiore – gruppo II
Diletta Rizzo Marin
Maria Rosaria Lopalco
Arianna Rinaldi

Voce dall’alto: Anna Larsson

Danzatrici:
Tamara Bacci (solista)
Gloria Dorliguzzo
Francesca Ruggerini
Roberta De Rosa
Martina La Ragione
Francesca Cerati (riserva)
Angela Russo (riserva)

Shibari / bondage:
Dasniya Sommer
Frances D’Ath
Bonnie Paskas
Georgios Fokianos

Contorsioniste:
Anna Pons
Valentina Giolo
Ferewoyni Berhe Argaw

Direttore: Roberto Abbado

Regia, scene, costumi e luci: Romeo Castellucci

Regista collaboratore: Silvia Costa

Movimenti coreografici: Cindy Van Acker

Coreografia bondage: Dasniya Sommer

Drammaturgia: Piersandra Di Matteo

Ballerina solista: Tamara Bacci (Gref)

Assistente alle luci: Daniele Naldi

Video 3D: Apparati Effimeri

Maestro del Coro: Andrea Faidutti

Maestro del Coro Voci Bianche: Alhambra Superchi

Orchestra, Coro e Tecnici del Teatro Comunale di Bologna

Coro di Voci Bianche del Teatro Comunale di Bologna

Allestimento Théâtre de la Monnaie Bruxelles

durata: 4h 10’
applausi del pubblico: 5’

Visto a Bologna, Teatro Comunale, il 19 gennaio 2014

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