Lo Shakespeare di Bruni, Frongia e De Capitani sul crinale tra due generazioni. Per denunciare la follia del potere
Un “vizio dell’arte” lungo mezzo secolo. È una doppia celebrazione quella cui assistiamo al Teatro Elfo Puccini di Milano con “Re Lear”: è il trionfo del potere che si compiace di sé, in una bramosia assai prossima alla follia; è soprattutto la festa della compagnia stabile dell’Elfo, nella stagione del cinquantennale.
Per l’importante ricorrenza, Ferdinando Bruni e Francesco Frongia in cabina di regia si affidano a Shakespeare. Il Bardo è epifania dell’umano, summa dei diversi atteggiamenti e delle grandi risposte di fronte ai problemi dell’esistere. La sua opera è un’autentica enciclopedia di temi, sentimenti e personaggi. Shakespeare è autore universale e coscienza critica dell’uomo occidentale. Non è un caso che la compagnia di corso Buenos Aires si misuri con la sua opera per la nona volta.
Bruni e Frongia aprono il sipario su una catasta di sedie e poltrone, con dei teschi intarsiati che suonano come una citazione di “Amleto”. Alla sommità di questo trono fantomatico, siede proprio il sovrano. Lo impersona Elio De Capitani, protagonista, direttore artistico e tra i fondatori della compagnia. Percepiamo, visivamente e simbolicamente, la struttura piramidale del potere, da cui Lear scenderà per cercare gli eredi cui passare la mano.
Bruni dipinge arazzi grigi a fare da cornice alla scena. Crea così uno spazio prospettico dinamico, un tronco di piramide rovesciata, che non ha nulla dello sfarzo di una reggia. È anche questa una metafora del teatro, il privilegio di un potere che indaga le ricchezze e le miserie spirituali dell’uomo, senza carpirne ricchezze materiali.
Noi siamo anche come gli ambienti che abitiamo. In questo luogo cupo, i simboli dipinti sulle pareti non sono le allegorie colorate e le virtù trionfanti dei palazzi rinascimentali, ma uccelli rapaci e teorie di spade e teschi, sormontati da corone auree. È un modo per evidenziare il marciume del potere, il dissolvimento che lo avvicina alla morte.
La scena prospettica, rinascimentale nell’architettura, barocca nella simbologia, si compone di sipari dietro cui si acquattano gli intrighi di corte.
Questo “Re Lear” è dramma della vanità. Galleggia continuamente tra verità e ipocrisia. Da un lato abbiamo una recitazione sobria, quasi pedestre; la impersona soprattutto Viola Marietti nei panni di Cordelia, la terza delle figlie di Lear, che lui diserederà e allontanerà perché parca di smancerie. Dall’altra abbiamo lo stile lambiccato con cui Elena Russo Arman ed Elena Ghiaurov interpretano rispettivamente Regan e Goneril, le due sorelle maggiori che useranno la doppiezza per ottenere l’eredità paterna: solo da quel momento manifesteranno con autenticità il proprio cinismo, fino alla crudeltà.
Potrebbe essere una sottile denuncia del teatro italiano, delle sue connivenze, che consentono ad alcuni artisti di accedere a premi, incarichi, bandi e risorse, mentre chi agisce l’arte nella purezza spesso rischia di restare al palo.
Autenticità e ipocrisia, dunque. Vivono tra questi estremi i personaggi di contorno della tragedia, Edgar (Mauro Berardi), Albany (Giuseppe Lanino), Gloucester (Giancarlo Previati), Cornwall (Alessandro Quattro), Oswald (Nicola Stravalaci), Kent (Umberto Terruso) e l’ambiguo per eccellenza Edmund (Simone Tudda).
In modi diversi, tutti sono vittime della follia. Il Matto dichiarato (impersonato da un vivace Mauro Lamantia che scimmiotta lo slang della generazione millennial) spazia ovunque per la scena con i suoi costumi bizzarri, una canotta da basket, una gonna di tulle sbrindellata, un copricapo giallo che ricorda quello imposto agli ebrei a fine Settecento.
Era proprio necessario vestire e far parlare il Matto come un beota? La follia è una categoria dello spirito. La vorremmo incarnata, più che esibita. Ma forse qui si vuole stigmatizzare la società delle apparenze, quella che giudica un libro dalla copertina. Si vuole magari sottendere che nell’umanità la follia è condizione universale, e troppo spesso non la intercettiamo perché coperta da una patina grigia che rende tutto uniforme.
Sarà per questo che nei costumi impera il grigio militaresco, accompagnato da anfibi ai piedi, fatta eccezione per le due sorelle maggiori – in particolare Regan – il cui rosso allude forse alle passioni di cui sono prede, fino alla crudeltà sanguinaria.
Per Lear-De Capitani scendere dalla sommità di quel trono rabberciato equivale a esautorarsi. Lo vediamo brancolare in scena, pur mantenendo la magniloquenza e lo spirito dell’antico potere. La colpa di cedere alle lusinghe delle figlie maggiori e l’empietà di allontanare Cordelia lo precipitano nella follia. È un’infermità fanciullesca che impietosisce, piuttosto che turbare. Questo folle volubile, capriccioso, assomiglia poco alla demenza senile evocata nelle note di regia. De Capitani è un padre-sovrano dimissionario da sé stesso e distante per esempio dall’Anthony Hopkins di “The Father”. Della vecchiaia, questo re Lear incarna le incertezze e lo spegnimento, non lo smarrimento. È sempre presente a sé stesso. Sembra sapere bene tutto ciò che deve fare e dire, e come e quando. È più credibile quando tuona contro il fragore degli elementi, dopo che le figlie lo hanno lasciato all’addiaccio. E allora ci ricorda il capitano Achab del “Moby Dick”, che aveva interpretato lo scorso anno con sulfurea e terribile lucidità.
Rimane una serie di filigrane con cui dialogare al termine di queste tre ore briose di spettacolo, che reggiamo bene grazie alla verve degli attori e della messinscena. Forse si sarebbe potuta evitare qualche didascalia, e ci è parso di notare delle disomogeneità nella recitazione dei protagonisti. Forse si sarebbe potuto approfondire un tema, anziché lambirne tanti sulla scorta del testo originale. Ad esempio, il passaggio di consegne tra la vecchia e la nuova generazione, che peraltro si ricollega alla crisi del nuovo teatro, oggetto di dibattito (e auto-incensazioni di diversa provenienza) la scorsa estate dopo un articolo di Franco Cordelli.
Viene da concludere proprio con l’epilogo di “Re Lear”, pronunciato da Edgar: «Noi dobbiamo accettare il peso di questo tempo triste. Dire ciò che sentiamo, e non ciò che conviene dire. I vecchi hanno sopportato di più: noi che siamo giovani non vedremo tanto, né vivremo tanto a lungo».
Re Lear
di William Shakespeare
traduzione Ferdinando Bruni
uno spettacolo di Ferdinando Bruni e Francesco Frongia
con Elio De Capitani
e con Mauro Bernardi, Elena Ghiaurov, Mauro Lamantia, Giuseppe Lanino,
Viola Marietti, Giancarlo Previati, Alessandro Quattro, Elena Russo Arman,
Nicola Stravalaci, Umberto Terruso, Simone Tudda
luci Michele Ceglia
suono Gianfranco Turco
produzione Teatro dell’Elfo e Teatro Stabile dell’Umbria
durata: 2h 45’ più intervallo
applausi del pubblico: 2’ 30”
Visto a Milano, Teatro Elfo Puccini, il 18 novembre 2023
Prima nazionale