Cos’è una voce che canta, specialmente una voce lirica?
Cos’è questa cosa che nasce per caso in un corpo, che qualcuno riconosce e spinge ad allenarsi, a lavorarsi fin nel dettaglio, per uscirne piegata a una tecnica che può apparire folle come quella che fasciava i piedi alle piccole cinesi perché non crescessero (o come gli anni alla sbarra dei danzatori classici)?
Una voce resa così centrale nell’economia di una vita, da mettere in secondo piano tutto ciò che la circonda, a volte persino quel corpo nel quale è nata, scuotendolo e stremandolo nel momento della performance, asciugandolo o spingendolo a imbolsirsi e irrigidirsi fuori dalla scena?
Chi sia Giuseppe Giacomini, morto pochi giorni fa dopo una malattia che ne ha alterato lo stato di salute negli ultimi tempi, è abbastanza facile scoprirlo in rete, per chi non l’abbia conosciuto. A vederlo, quasi calvo, dalle spesse lenti e dal volto appuntito, non rispondeva fisicamente né alla figura spavalda di tenore alla Del Monaco né a quella ammiccante, piena di immediata comunicativa internazionale alla Pavarotti.
Cultura probabilmente modesta, ascendenze popolari, grande fede religiosa, enorme umiltà, Giacomini ha calcato per quasi quarant’anni i più importanti palcoscenici del mondo guadagnandosi la fama di una voce enorme, scurissima, di un impatto forse impareggiabile, e rimanendo negli aneddoti non solo per le sue serate d’oro, ma anche per i tonfi. «I suoi nervi», come si diceva e si continua a dire in un mondo vintage per definizione come quello della “lirica”, intendendo le ansie, le debolezze che lo attanagliavano poco prima di uscire in scena, talvolta perseguitandolo fin davanti al pubblico, con esiti conseguenti.
Non solo per questo l’evidenza fisica del fenomeno vocale è impressionante, in Giacomini. Parlo di evidenza fisica e intendo la tenzone che contrapponeva nel momento del canto quell’uomo a un gigante, a un drago violento e ombroso, che aveva sede nel suo stesso corpo: la sua voce, appunto.
In un’intervista abbastanza tarda, amara senza poesia, fragile senza aneddotica, moralistica, Giacomini quasi di passaggio dice che la voce ha risonanza, e vive, anche nelle ossa, nello scheletro del cantante. Sentendolo, e anzi vedendolo cantare, ciò era evidente. La sua voce torrenziale era una scossa, una vibrazione sconvolgente dunque non solo per noi, ma anche per lui che la produceva. A rintracciarne le sorgenti, doveva essere come quei fiumi che non hanno una vera e propria unica fonte, ma che sono tali dall’incontro di altri minuti, ramificati corsi d’acqua. Così a me pare che dalle ossa dell’intero corpo del tenore, dalle dita dei piedi, da quelle delle mani, dai gomiti, dalla colonna vertebrale, egli facesse nascere la sua voce, e che solo poi se la ritrovava in gola. Poi nuovamente essa ripercorreva quelle strade, riempiendosi di armonici non solo nel cranio, divenendo pericolosa e ingestibile, fino a sfogarsi da una bocca arricciata ai lati, dalle labbra sottili, con il superiore che tende a rientrare, un po’ molle, su certe note.
A questo punto, nel momento in cui il suono è prodotto, siamo solo all’inizio della lotta, perché contro questo gigante, al quale non è possibile regalare meno fiato, meno energie di quelle che richiede, bisogna donare un’emissione regolata, un colore, poi un fraseggio, infine addirittura un senso (eh sì, nell’opera si cantano parole).
In groppa allo spaventoso drago della sua propria voce Giacomini poteva essere scagliato senza risparmio a destra e a manca, disarcionato. Ma c’erano serate in cui era lui a stringere fermamente tra le cosce quel dorso nervoso, ne lisciava le squame pericolose, lo spronava infine in volo, e la coda irrequieta del mostro frustava rabbiosa, vinta, l’aria dietro di lui.
Bisogna ascoltare “Amor ti vieta” dall’opera “Fedora” di Umberto Giordano, in un recital del 1991.
L’aria è brevissima, il testo di Arturo Colautti recita:
Amor ti vieta di non amar…
La man tua lieve che mi respinge,
cerca la stretta della mia man:
la tua pupilla esprime: “T’amo”
se il labbro dice: “Non t’amerò!”
A dire le parole cavillose ma sornione è il personaggio di Loris, assassino del promesso sposo della protagonista Fedora. Durante l’opera si scoprirà che il morto, Vladimir, era un poco di buono seduttore. Nel frattempo, però, Loris si è innamorato di Fedora, la quale ne respinge l’amore per il tentativo di smascherare l’assassino. L’amore è già nato in lei, ma è troppo forte l’odio verso l’assassino. Il corpo di lei, però, parla: la mano che respinge Loris in realtà lo vuole; le parole lo negano ma l’occhio conferma un amore inaccettabile.
Ascoltare in questo caso significa vedere: «Amor ti vieta», canta Giacomini, ed è come se, in queste prime sillabe avviasse un motore, le vibrazioni sono raccolte nel capo, lo esplorano. «Di non amar», e “amar” è già quasi in mezzavoce, «amar», in particolare, è detto con rispetto, quasi con timidezza, una dichiarazione che sente di essere enorme e provocatoria e che tenta di porgersi senza far male. «La man tua lieve» è la rapida, efficace creazione di una pasta vocale tiepida come quella mano leggera, e l’impresa della dolcezza è portata alla perfezione nel «che» del secondo quinario.
C’è poi, subito dopo, un guizzo di rabbia, eroico, al «mi respinge» – poiché Loris quel rifiuto non può accettarlo – un guizzo però subito archiviato in «cerca la stretta», che è pronunciato come guardando negli occhi Fedora, ed è un affondo verso di lei ancor più grave del precedente, è la nobile, limpida ingiunzione, scardinate le porte del suo cuore, di riconoscere che quell’amore già esiste, ed è reciproco. «Della mia man» è un gesto fatto voce, è quello di due mani che accolgono morbide una terza (le mani di Giacomini di avvicinano, tanto irresistibile è il gesto che ne informa la voce), prima della grande apertura «la tua pupilla esprime “T’amo”», e del rimprovero, dell’inarcarsi di un busto fiero, quello di lei, che non cederà tanto facilmente, in «se il labbro dice». Ma poi, quando tutto sembra ormai deciso, l’ultima parola dell’aria, «amerò», riesce nel suo dispiegarsi a smentire la negazione che la precede, il «non»: quel rifiuto si volge su sé stesso, si dimostra niente di più di una facciata, sotto la quale cova, lavora, quasi esplode la bolla del “sì”, l’accettazione dell’amata e il ricambio del sentimento, stavolta dichiarato.
Tutta questa minuta opera di significazione avviene attraverso una voce visibile nel corpo, tanto nel meccanismo della fonazione quanto nell’opera di analisi dei significati – quel corpo così fuori da ogni schema, persino quelli convenzionali del cantante d’opera. È una voce-corpo, la sua, che trasmette non l’unità ma la lotta e la partecipazione, il sacrificio e la restituzione di dettagli infiniti.
Questo era Giacomini, l’eroe che domava il drago – altro che “nervi”.