Arrivato prima al Teatro della Tosse di Genova e poi al Festival delle Colline Torinesi, lo spettacolo aveva debuttato alla Biennale di Venezia 2020
Barocca. Colorata. Apocalittica. Dolorosa. Funerea. Glam. Così è la messa in scena de “I rifiuti, la città e la morte” di Rainer Werner Fassbinder secondo Giovanni Ortoleva, in scena prima al Teatro della Tosse di Genova, che lo ha prodotto, e poi al Festival delle Colline Torinesi, manifestazione che prosegue fino al 6 novembre. Lo spettacolo, in origine allestito per la Biennale di Venezia 2020 diretta da Antonio Latella, ha quindi vissuto un nuovo revival per le scene genovesi e torinesi. «Ho voluto riportare l’allestimento de “I rifiuti, la città e la morte” perché avevo l’esigenza di riprenderlo, non mi andava di lasciarlo chiuso come un’esperienza a sé» ha affermato il regista.
Le premesse: un testo quasi impossibile da rappresentare, 19 personaggi nella dramatis personae, con cambi di scena rapidi e frequenti, un testo che, scritto nel ’75, viene da subito osteggiato dalla censura tedesca e che verrà rappresentato solo a partire dall’85. Una traduzione, quella in italiano del 1992, forse datata e talvolta imperscrutabile, che il regista rilegge con attenzione, forte dell’aiuto dell’attore Werner Waas alias Signor Müller, bilingue. Ma quanto può, un testo così controverso come quello di Fassbinder, essere attuale a quasi 50 anni di distanza?
«“I rifiuti” parla di speculazione edilizia, tema quanto mai attuale, è vero, ma parla anche dell’invivibilità della città. Firenze – la mia città di origine – Roma, Milano, sono città in cui è diventato sempre più insostenibile vivere economicamente, e quindi vivono un continuo senso di rinnovamento, di distruzione, proprio perché invivibili. Non a caso la prima didascalia del testo ci dice che siamo “Sulla Luna, giacché è inabitabile quanto la terra, anzi, per meglio dire, quanto le città”».
L’azione si svolge su una scena oltremodo scarnificata e privata di quinte, sipario e fondale, un luogo-non luogo; al centro un agibile nero glitterato a forma di croce, che è allo stesso tempo passerella e cattedrale. Sedie – vuote – sui due lati, gli attori (sette) sempre presenti in scena.
La chiave di lettura di questo lavoro sta in uno dei fondamentali del teatro di Ortoleva, almeno fino ad oggi: la convenzione. È la convenzione che permette la messa in scena di una pièce così articolata, ed è la convenzione stessa a ingenerare tutta una serie di piani narrativi, estetici e diegetici, che rendono possibile poter portare il lavoro in porto, a partire dalla suddivisione delle parti: abbiamo difatti in scena due tipologie di attori-persone, potremmo chiamarli attori-personaggio e attori “mutaforma”.
Proprio nella funzione di questi attori “mutaforma” sta, a primo impatto, il lavoro di stratificazione più evidente. Edoardo Sorgente, ad esempio, interpreta tutte le parti maschili non assegnate, così come Anna Manella le parti femminili. Andrea Delfino (grandissima prova attoriale anche in termini di forza e resistenza, la sua) interpreta il Piccolo Principe e allo stesso tempo l’uomo “didascalia”, crooner in azzurro con microfono a asta in mano che accompagna l’azione a suon di cambio pose.
Il ritmo è tutto affidato ai rapidi scambi di battute tra i personaggi che, quindi, non coincidono con altrettanti scambi tra attori: e perciò il cambio di personaggi nella prima scena della Manella sono scanditi dai rapidi cambi di posa e tono di voce, a ritmo di colpi di tacco. L’effetto è quello di un reading corale, anzi un meta-reading, una riproduzione in toto del testo inteso come documento stampato, a cui non corrisponde una fedele azione scenica, un reading-non-reading, uno straniameno alla Brecht rivisitato in chiave post-moderna.
E’ un continuo gioco meta-teatrale in cui i personaggi vivono, muoiono, emergono, camminano, si ritirano, cambiano in un vortice spesso frastornante, quintessenza stessa di questo spettacolo, che mescola – secondo la legge vincente di tutto il teatro da Shakespeare in poi – l’alto e il basso, l’orrido e il sublime, il divertente e il perturbante, senza soluzione di continuità. L’abilità del regista fiorentino emerge nel suo agire nei sotto-testi, in quei vuoti narrativi o descrittivi, nei silenzi del testo, tra i quali Ortoleva si muove spennellando la pièce con sorprendente genialità: le scelte musicali (le hit delle Berté, Patty Pravo e Gianna Nannini più pop e iconiche), l’inserimento di una – non breve – sequenza danzata, in cui gli interpreti si cimentano in passi di Waacking e Voguing da video dance, chi adornandosi di gioielli e pellicce (ah, i ruggenti anni ’80!), chi sparando banconote da una pistola sparasoldi, in una danza punk che strizza l’occhio al kitsch da tv generalista.
Nota estremamente lucente: il cast. Camilla Semino Favro è una Roma B. inaspettata, lucida, fresca, asciutta, disillusa: non cede il passo al vittimismo e al pietismo facile che è il tranello di questo personaggio; Franz B. è interpretato da Marco Cacciola che parte dimesso, in sordina, fino all’apoteosi orgiastica del quadro finale, esplorando i molti toni della mascolinità, passando dal maschio alpha pappone allo schiavo oggetto da orgia sadomaso, attraversando un ballo in cui brilla come i divi e le dive della scena Waacking; il personaggio del Signor Müller, ex nazista e ora showman di basso rango en travesti, è interpretato da Werner Waas, all’occhio gigante figura perturbante, tra il saggio filosofo antico e la drag queen, potremmo dire a metà strada fra il vecchio saggio e il vecchio porco, che risulta come un’immagine iconica, titanica, inscalfibile nella memoria dello spettatore perché estremamente efficace e riuscita; questo Sig. Müller, una montagna di uomo ultrasessantenne, atletico, gambe lunghissime e muscolose in calze a rete e zeppe da venti centimentri, racchiude in sé tutte le caratteristiche ferine e angeliche, postulate nella teorizzazione dell’Angelanimal di Eugenio Barba, verso le quali viene attirato il pubblico che prova contestualmente attrazione, curiosità, diffidenza, repulsione.
Ma, in questo cast davvero brillante e azzeccato, la luce più luminosa è senza dubbio quella di Edoardo Sorgente, attore napoletano già noto al pubblico di Ortoleva per aver interpretato Mefistofele nel Faust e il protagonista del monologo “Oh!Little man!”: «Con Edoardo ci conosciamo da molti anni, frequentavamo la stessa accademia [la Paolo Grassi di Milano, ndr]. Io nel percorso di regia e lui in quello da attore, ed è l’unico dell’accademia con cui sono rimasto in contatto. È lui l’interprete del mio primo monologo, “Oh! Little Man!” e lui è l’interprete della prossima produzione a cui sto lavorando: Lancillotto e Ginevra».
Sorgente, in quest’azione corale dove si fatica a riconoscere un protagonista, o un comprimario più o meno primario di un altro, emerge dal tableau degli altri, seppur ottimi, attori e li distacca di molte spanne, in termini di presenza fisica, espressività emotiva in economia di sforzo, intenzione e tono. Il ruolo-funzione di mutaforma risulta su Sorgente particolarmente azzeccato, impersonando ora il Nano, ora Oscar, ora Jim, ora lo spazzino, cambiando minimamente tono e registro, un piccolo accenno su volto o il movimento delle mani, eseguendo tanti piccoli e impercettibili switch in un’interpretazione tanto schizofrenica quanto convincente, proprio perché la schizofrenia formale è l’essenza stessa di questa messa in scena (in termini di schizofrenia, la prova di Sorgente ricorda molto l’interpretazione di James McAvoy – mutatis mutandi – nel film “Split” diretto da M. Night Shyamalan, in cui McAvoy ricopre il ruolo dello psicopatico abitato da 23 diverse personalità).
“I Rifiuti, la città e la morte” di Ortoleva spiazza e mette in gioco una polifonia di forze e di voci, proponendo letture che affondano il testo con tagli e profondità differenti, portando sulla scena un quadro frammentato e scomposto, urlato e scintillante, ma non per questo caotico né aleatorio, bensì costruito e ricostruito – e dunque inevitabilmente complesso -, come un gioco di specchi e labirinti in cui sta allo spettatore, se vorrà, tracciare la propria pista, una delle possibili, verso la forma base di questa mise en scene, ovvero la controversa drammaturgia fassbinderiana.
I rifiuti, la città e la morte
di Rainer Werner Fassbinder
traduzione Roberto Menin
regia Giovanni Ortoleva
scene e costumi Marta Solari
realizzazione costumi Daniela De Blasio
sarte Rossana Cavallo, Rocio Orihuela
movimenti di scena Leda Kreider
musica Pietro Guarracino
disegno Luci Andrea Torazza
fonica Massimo Calcagno
costruzioni Giovanni Coppola
assistente alla regia Gabriele Anzaldi
assistente volontaria Federica Balletto
con Gabriele Benedetti, Marco Cacciola/ Giovanni Drago, Andrea Delfino, Anna Manella, Camilla Semino Favro, Edoardo Sorgente, Werner Waas
produzione Fondazione Luzzati-Teatro della Tosse
coproduzione Theaterdiscounter
in collaborazione con Barletti /Waas e ITZ – Berlin
si ringrazia Goethe Institut Genua