Diciamo subito cosa è stato, così ci togliamo il pensiero.
Secondo me è stato un evento abbastanza bipartito dal punto di vista concettuale. Lo spettacolo in carcere era un pout-purri di momenti e personaggi shakespeariani, da Otello a Riccardo III, Lady Macbeth e poi Mercuzio, e parole di poeti e scrittori assai diversi fra loro, che sviluppavano nel lungo del cortile recintato del carcere una riflessione sul voler essere, mentre alle loro spalle grandi pannelli portavano nel carcere la città di Volterra.
La parte in cui, invece, il carcere “invadeva” Volterra, ovvero tutta la parte fuori dalla Fortezza, era lo sviluppo di alcuni temi e immagini dello spettacolo, volti in azioni collettive.
Abbiamo visto la stessa cosa o il tuo occhio ha notato qualcosa di ulteriore e di diverso?
M. B. Ciò che hai detto è esattamente quello che abbiamo visto. Quello che l’anno scorso avevamo vissuto soprattutto nelle stanze dei laboratori del carcere è stato portato all’esterno rendendolo spettacolo totale. Tutti i personaggi del Grande Bardo, ma non solo loro, nella loro diversità (come nel finale di Otto e mezzo di Fellini) ci hanno circondato, e con il loro effluvio di parole hanno creato una specie di alfabeto emozionale del concetto di libertà e dell’assoluto bisogno del sogno come strumento di verità. C’era poi, a mio avviso, l’esigenza da parte di Armando Punzo di affermare come il teatro sia un’esperienza fondamentale della nostra vita, che non può essere confinata in un qualsivoglia carcere.
R. F. Rispetto alla parte in carcere, devo dire che il livello di decostruzione del testo, della parola, è arrivato secondo me ai massimi livelli. Mai Punzo era arrivato così avanti, in una deframmentazione, cosa diversa dalla frammentazione, più simile all’operazione di riorganizzazione dell’hard disk di un computer, quando per recuperare ordine e spazio logico si fanno a pezzettini file che il computer ha memorizzato qui e lì, cercando di ricompattarli in un ordine però diverso. Logico, ma altro, che forse non apparteneva all’integrità originaria.
Eppure non ti nego un certo spaesamento, che nemmeno il finale è riuscito a togliermi di dosso, un finale in cui attori e “spett-attori” venivano chiamati da Punzo a stare sullo stesso lato, aprendo al cielo i propri libri portati in carcere come segno di una civiltà che non può conoscere barriere.
R. F. A questo punto direi, come nelle nostre trasmissioni radiofoniche “Sparlate di teatro” (a cui rimandiamo i nostri fedeli seguaci) di aprire un po’ l’angolo della polemica, del disallineamento, del fuori dal coro.
Ne parlavo con qualcuno in albergo, che mi diceva che il valore per così dire sociale e politico dell’esperienza collettiva, era talmente importante per la Compagnia della Fortezza, per la città, per il teatro italiano, che non aveva senso mettere in rilievo alcune pecche, pur evidenti, dello spettacolo, cosa che avrebbe potuto mettere a rischio il progetto nel suo complesso.
Siccome però, da un altro e più filologico tavolo, mi si faceva notare come molte delle questioni che lo spettacolo intendeva porre allo spettatore e alla comunità erano assai simili a quelle che ancora nel 1967 si proponevano con il manifesto di Ivrea (richiamato nell’incipit del libro di Porcheddu, per esempio) o dalle azioni dei Bread and Puppet, come ci ricordava Oliviero Ponte di Pino nella nostra diretta, ecco, considerato tutto questo, penso che l’esperienza di portare questo “arrevuoto” a Volterra sia meritoria, ma che parlare di rivoluzione, di esperienza cruciale per il teatro italiano degli ultimi decenni, come qualcuno neanche tanto velatamente ha detto, sia un po’ esagerato.
M. B. Se lo estendiamo a tutto il lavoro di Punzo potremmo forse dire di sì, collegandola poi a tutte le grandi esperienze che in questo senso si fanno e si stanno facendo in Italia raccolte nel libro di Pozzi ed Ingroia dall’emblematico titolo “Recito dunque sogno”. Tutto ciò testimonia più di ogni altra forma di teatro che quest’arte non sia solo un’arte ma la metodologia più alta di affrancamento dell’uomo.
R. F. Un’ultima cosa la devo dire poi ad Armando, perché un po’ mi è rimasta qua, indicandomi la gola vicino al pomo d’Adamo. Io ho amato e amerò per sempre quello che lui ha fatto per il teatro italiano, per la Fortezza e per la forza d’animo di chi fa pratica teatrale; credo nel progetto dello stabile della Fortezza, perché sarebbe un segno di civiltà, il più estremo che la Toscana potrebbe dare all’Italia intera in tema di integrazione e ritorno alla coesione sociale. Eppure tanto avrei preferito che il progetto di azione performativa diffusa esternamente al carcere fosse stata policentrica, polivocale. Che l’esplosione performativa avesse più d’un megafono a guidarla. Un po’ perché sarebbe stato bello mettere ancor più a frutto le esperienze che lì erano convogliate da tutta Italia (tra gli altri Balletto Civile, Teatro delle Ariette, Teatro dell’Argine), un po’ perché non credo né filosoficamente, né socialmente, nel modello dell’uomo solo a dirigere. Questa penso sia una strada di perfettibilità di questo tipo di esperimenti.
M. B. Avevamo già notato in passato come spesso il teatro di Armando sia un po’ troppo autoreferenziale, ma quale grande artista non lo è?
In questo lavoro c’erano così tante, troppe parole che alla fine molte si perdevano. Ma così fa del resto Mercuzio quando muore, forse perchè appunto non vuole morire.
Le altre azioni erano poco coordinate, un po’ troppo confinate in luoghi nascosti. Per fortuna sono riuscito a vedere “Minotaurus” di Antonio Viganò e Julie Stanzak, meraviglioso spettacolo che si ispira all’omonima opera di Dürrenmatt, agito da quattro attori-danzatori diversamente abili . Il Minotauro qui diventa la metafora dell’esclusione: danza, parola, silenzi, musica insieme, anche qui, comunicavano intensamente voglia di libertà e di amore.
R. F. Anche perché, in fondo, come riflettevo a gran voce con gli spiriti a me più vicini, non so se poi veramente Mercuzio, come Berlusconi, non vorrebbe morire. Secondo me Mercuzio, come dice la mia coscienza inattesa, vuole vivere bene. Magari a lungo; ma forse non ha interesse all’immortalità come valore. Tu vorresti l’immortalità?
M. B. Non vorrei dire banalità, tipo “La vita è una cosa meravigliosa”. L’immortalità è tutto ciò che lasciamo agli altri di noi, penso che questa massima sia intimamente vera.
R. F. Allora cosa dobbiamo augurare a Mercuzio?
M. B. Di non morire? E’ troppo ovvio, lui non vuole morire. La sua morte, in Shakespeare, è un grande anelito alla vita, è un lungo respiro pieno di rammarico per ciò che avrebbe voluto fare e che non ha fatto. Ecco, quando una persona ha fatto tutto quello che voleva fare, allora sì che può aspettare serenamente la morte. Ma di certo Mercuzio-Punzo ha molta voglia di fare ancora tante altre cose.
Vi lasciamo in chiusura ad un breve video con alcune immagini riprese il 28 luglio in quel di Volterra accompagnate dalle musiche di Andrea Salvadori.