Il termine Ring ha in inglese molteplici significati: anello, cerchio, suono, network… Significati che possono essere tutti adottati dal Ring Festival, rassegna di performance e arti contemporanee che si è tenuta a Lucca dal 28 al 30 agosto in occasione del cinquecentenario delle mura urbane e sotto la direzione artistica di Aldes / Roberto Castello. L’intento è quello di festeggiare l’antico con il nuovo, unire la parte solida – le mura – segno e testimonianza di un passato e di una storia antichissima, con il presente, la parte effimera e fluida, rappresentata dalle arti contemporanee.
Artisti provenienti da Italia, Turchia, Israele, Francia e Svizzera si sono alternati in tre giornate ricche di eventi (alcuni dei quali ideati appositamente per l’occasione) che hanno visto incrociare la danza con il video, la parola (anche attraverso performance verbali) e con la musica dal vivo.
Particolare attenzione è stata data alla relazione con gli spazi, scegliendo di sfruttare l’occasione dell’anniversario delle mura urbane come pretesto per una riflessione sul rapporto con il territorio. Le performance avrebbero infatti dovuto svolgersi tutte nei baluardi delle mura, ma per alcune difficoltà originariamente non previste dall’amministrazione comunale la scelta è ricaduta per la seconda e terza serata sulle sale del Palazzo Ducale che, per quanto affascinanti e pregne di atmosfera, hanno comportato alcuni limiti, non da ultimo il caldo tipico di una serata d’agosto. La rassegna ha comunque riscosso un notevole successo, non riuscendo neppure a soddisfare tutte le richieste di afflusso.
Il primo giorno gli spettacoli sono stati preceduti da visite alle mura urbane guidate da un esperto, unica vera testimonianza della memoria del luogo. Ma forse è proprio questo uno dei punti focali del festival, la rottura con il passato. Le mura simboleggiano una chiusura da cui si sente il bisogno di evadere, soprattutto per necessità di lasciare entrare, che per quella di allontanarsi. Sensazione enfatizzata dall’atmosfera cupa dei corridoi dei baluardi, detentori di prigionie passate, di metaforiche urla represse, di pesantezza storica di cui in qualche modo è giunto forse il momento di liberarsi.
E proprio di pesantezza ci parlano, perfettamente in tema, Alessandro Certini e Company Blu, con il loro “Heavy Metal” – work in progress realizzato en plein air sopra un baluardo delle mura.
Un’armatura medievale attende il pubblico stesa sul prato, all’apparenza vuoto involucro senza anima. Lentamente prende vita con movimenti rigidi, amplificati dal microfono che ne enfatizza ancora di più la pesantezza. Grazie alla direzione sonora di Spartacus Cortesi i movimenti si manifestano come squarci di suono nello spazio. Il movimento è legato da un’armatura vecchia di secoli e ne porta addosso tutta la fatica. E’ il corpo che si libera di una corazza metaforica, dell’heavy metal, del superfluo. Certini gioca con ironia sul termine, effettuando salti temporali tra passato e futuro e tra il significato musicale dell’heavy metal e quello letterale del termine, facendo sorridere il pubblico con una goffa danza sulla musica hard & heavy dei Motorhead.
Il gap temporale è ricucito da un suono diverso rispetto ai cigolii dell’armatura, che si intromette improvvisamente nella scena. E’ la suoneria di un telefonino, che inaspettatamente salta fuori dai meandri dell’armatura. E’ probabilmente l’operatore di un call center a chiamare, che incalza una tipica proposta tariffaria, riportandoci ai nostri tempi ed enfatizzando i paradossi che li caratterizzano. Mentre il paradosso del corpo è quello di attraversare varchi temporali senza modificarne la consistenza, o quanto meno, il modo in cui questa viene percepita.
Si passa, dopo una nuova visita alle cerchia murarie, alle “Anatomie della Parola” di Aline Nari & David Frangioni, una performance in cui il poeta Paolo Gentiluomo recita estratti di antiche poesie, in posizione immobile di fronte ad un microfono, dialogando con i movimenti di una danzatrice – Aline Nari – che, entrando in scena a recitazione iniziata, sembra intromettersi in un’opera di pieno studio e ricerca etimologica della parola.
Le frasi non costituiscono un senso, ma procedono piuttosto per assonanza, conducendo il monologo in sorprendenti risultati verbali. La danzatrice entra in lento contatto con il poeta, dando vita ad una vera e propria relazione tra parola e movimento, come due essenze che si incontrano, si scoprono e imparano a conoscersi. Il monologo diviene dialogo. Si gioca dunque sul senso del comporre, là dove parola e movimento hanno le stesse potenzialità, divenendo complementari e restituendo un senso che sembrava fino ad allora mancare.
Nel giorno successivo assistiamo a Palazzo Ducale alla performance di Michelangelo Consani – “Wiki mon amour – Racconto performativo inedito” incentrato sulla rimozione della memoria collettiva riguardo al tema dell’atomica.
Il pubblico viene fatto sedere su tre lati della stanza, mentre nel quarto siede a gambe incrociate, rivolta verso il muro, una performer che indossa una maschera. Parte una registrazione audio, dal suono metallico, che rappresenta un collage di materiale ricavato da wikipedia sulla follia nucleare e sui metodi di rimozione utilizzati dai governi, da Hiroshima e Nagasaki alla più recente Fukushima. Purtroppo, nonostante l’argomento sia notevolmente interessante e sviluppato con originalità, la qualità dell’audio non risulta completamente percepibile, lasciando lo spettatore con diversi vuoti.
Al termine della registrazione audio la performer si volta e si toglie la maschera, per intonare un suadente canto indiano popolare di protesta proprio contro il nucleare, che va a costituire probabilmente l’unico momento poetico e maggiormente estetico della performance.
In occasione del festival è stato anche assegnato il “Premio dell’Uomo in Piedi” a Erdem Gündüz, il giovane coreografo turco che l’ha ispirato con la celeberrima performance “Duran Adam” (L’uomo in piedi) realizzata a Istanbul nel 2013 in piazza Taksim a seguito della violenta repressione della polizia.
Il coreografo sviluppa con l’ausilio di due danzatrici, Irene Russolillo ed Elisa Capecchi, una performance attorno alle situazioni di ambiguità cui può dar vita il rapporto tra vittime e carnefici, dove i confini tra i due ruoli possono divenire sottili e generare inversioni di situazioni. Argomento perennemente attuale, e più volte affrontato in opere teatrali – fra le tante ricordiamo “La morte e la fanciulla” di Ariel Dorfman – che gioca sull’empatia generata nello spettatore verso entrambi i ruoli, a sottolineare le infinite sfumature e ambivalenze della natura umana.
Gündüz riesce comunque a rendere suo l’argomento, elargendo una performance leggera e facilmente fruibile, a dispetto dell’argomento.
E’ invece un momento estremamente poetico la performance di Roy Assaf “Six years later”, realizzata con la danzatrice Hadar Yunger Harel. Con una eccezionale sinergia del movimento i due danzatori danno vita ad una storia tra un uomo e una donna, che viene sviluppata attraverso una perfetta armonia del movimento, in tutte le molteplici sfumature, nelle differenti visioni di entrambi e nei momenti di forza e di vulnerabilità che la contraddistinguono.
E’ quasi come vedere il trailer di un film, dove i momenti salienti vengono accostati, contrapposti e sfumati per cercare di raccontare, in un breve tempo, una relazione ripresa dopo sei anni. Le musiche di Beethoven e Handel rendono l’atmosfera ancora più impalpabile, catturando unanimemente gli animi degli spettatori.
Di natura completamente diversa la performance di Marta Bellu “How to do things with words – Studio su un enunciato performativo infelice”.
M e D sono i due protagonisti di un dialogo muto che viene espresso attraverso i movimenti, con l’ausilio di sottotitoli proiettati sul fondale e di targhette che giocano sul nonsense. Al di là dell’essere fin troppo didascalica la performance fatica a prendere forma, lasciando lo spettatore nell’attesa di uno sviluppo che viene però a mancare.
Decisamente in un ring sembrano accogliere il pubblico, nell’ultima giornata del festival, Annie Vigier & Franck Apertet (les gens d’Uterpan), con il loro “Les chutes (le cadute) parte di X-Event 2.3 According to the protocol”.
Quattro performer (tre uomini e una donna) si spingono a vicenda da un perimetro centrale (ai cui lati è stato fatto sedere liberamente il pubblico) gettandosi a terra con forti (e sonore) cadute – sconfinanti spesso sullo stesso pubblico – dalle quali si rialzano per riposizionarsi al centro, pronti a subire, o a sferrare, una nuova spinta, senza mai pronunciare una parola.
Il processo va vanti, sotto l’occhio smarrito dello spettatore, fino all’esaurimento delle forze, portando i quattro elementi a terra, sfiniti. Ma “il gioco” non è finito, e riprende con un’inversione di loop, seguendo a ritroso i tempi dell’andata, fino a riportare i quattro performer allo stato di partenza, in preparazione dell’inizio del “match”, ma ora visibili con occhi diversi, sottolineando la reversibilità dell’azione scenica e una diversa consapevolezza dell’individuo in rapporto al luogo.
L’interesse di Annie Vieger & Franck Apertet è infatti volto alle norme che vigono e definiscono danza e arti performative, con un’attenzione particolare ai confini (e ai conseguenti limiti) del corpo e della rappresentazione. Colpisce particolarmente la resistenza e la capacità di sopportazione fisica dei quattro giovani artisti.
Ancora un’attenzione agli stereotipi della danza (e non solo) con Tabea Martin e il suo “Duet for two dancers”. Gaetano Badalamenti e Ryan Djojokarso si presentano al pubblico in una scena vuota, esordendo di fronte ad un microfono con la frase “I’m a dancer”, a cui seguirà la coreografa (in realtà una sorta di “controfigura” dal momento che Tabea Martin non ha potuto essere presente) che si presenterà al pubblico nello stesso modo.
I due danzatori conquistano ben presto il pubblico con un’ironica dissertazione danzata sulle tipologie del movimento, che simboleggiano altrettanti stereotipi sociali o comportamentali: happy movements, love movements, erotic movements, beautiful movements e così via sono le tipologie di possibili movimenti che i due performer presentano al pubblico, giocando sui luoghi comuni e sulle definizioni, sia in termini coreografici che sociali.
Nonostante lo spettacolo sia pienamente godibile e apprezzabile per la bravura dei due danzatori viene da chiedersi se la riflessione non rimanga un po’ vittima di se stessa, dando spazio a cliché talmente martoriati da risultare superati.
Gli “Strascichi” di Irene Russolillo sono invece i residui di un’esperienza, dopo la fine di una storia d’amore (o di more, di ore, di re e..). Con un’abile uso di fonemi, slittamenti di senso e cambi di registro la giovane coreografa riesce a giocare sulla figura femminile, creando paradossali sovrapposizioni di contesti e situazioni. Si possono definire le sensazioni di solitudine e di mancanza dati dalla fine di una storia? Irene Russolillo ci riesce con grande maestria e generosa ironia. Un’artista che si rivela a tutto tondo, passando con disinvoltura dalla danza alla recitazione, al canto.
Chiude la rassegna Roberto Castello, con un’anteprima del suo ultimo lavoro “In girum imus nocte (et consumimur igni)”, palindromo latino che significa “Giriamo in tondo nella notte e siamo consumati dal fuoco”.
La frase, già utilizzata in passato – dal regista Guy Debord con un film omonimo, al famoso gruppo tedesco Einstürzende Neubauten, con la canzone Salamandrina Salamandrina – suggerisce immediatamente il senso della performance, che allude ad un presente che gira attorno a se stesso, senza via d’uscita.
Con un ritmo ossessivo e quasi ipnotico, così come la musica che persisterà per tutto il tempo, la performance si articola in quadri alternati da una voce robotica che costantemente comanda “light”e “dark”, creando un effetto temporale gestito dalle fasi di luce e buio.
Ad ogni nuova accensione di luce lo spettatore si trova di fronte ad una nuova situazione, ognuna delle quali trasuda un disfacimento in qualche modo intrinseco nell’essere umano, ma che allo stesso tempo ne rappresenta anche il fascino, permettendo allo spettatore di entrare in empatia con i personaggi.
E’ una performance ironica, sulla dissoluzione della nostra umanità, ma soprattutto sulla consapevolezza. La nostra è una contemporaneità che non è in grado di comprendere, perché non c’è più niente da comprendere, sembra suggerire. In attesa del debutto vero e proprio ci aspettiamo che lo spettacolo si arricchisca ulteriormente, anche se già caratterizzato da una propria estetica.
Nel rapporto con il luogo rientra sicuramente la video-installazione “Fino a qui” di Daniele Spanò, proiettata sulla parete esterna del Teatro del Giglio per due serate, quasi a simboleggiare una qualche occupazione di uno spazio caratterizzato nel tempo da una programmazioni forse troppo elitaria. Immagini di performer sproporzionatamente grandi rispetto alle porte e alle finestre del teatro lasciano pensare ad un luogo che “sta stretto” ai giovani artisti, probabilmente desiderosi di ritrovare una qualche sinergia con gli spazi cittadini.
Allo spettatore resterà l’onere di ricostruire il nesso che collega le varie performance, così come quello che unisce il passato al presente. Perché chi osserva è parte integrante della scena, prodotto contemporaneo di un luogo e di un tempo.