Classe 1929, Paolo Poli è davvero un uomo del Novecento. Esigente e rigoroso ci aspetta al Teatro Sociale di Valenza con una puntualità matematica, seduto al centro della scena che, qualche ora più tardi, lo vedrà protagonista del suo “Aquiloni”.
Dietro di lui sono già fissate le scenografie di Lele Luzzati; tutto è pronto eppure si muove ansioso per il palco, supervisionando la preparazione di ogni dettaglio.
Un perfezionista d’altri tempi che, ogni volta, affronta un particolare autore a modo suo, con quel fiume surreale e ironico che tanto ha turbato e divertito.
Ci confida il suo interesse per Pascoli come precursore delle onomatopee del Futurismo, una curiosità che l’ha spinto a costruire uno spettacolo nella maniera più classica, se così si può chiamare il teatro di Poli.
I paesaggi del grande artista ligure salgono e scendono mentre davanti, in scena, un gruppo di attori, tutti rigorosamente uomini “en travesti”, recitano le poesie e intonano canzonette piene di doppi sensi e riferimenti comici. Nessuno sbaglio, nessuna imperfezione, tutto è assolutamente perfetto, come quel sorriso da rivista, forzato e artificiale, che si disegna sul suo volto appena si apre il sipario o si accende la luce della videocamera.
Ci spiega anche il motivo di questo nella chiacchierata che intrattiene con noi.
Non ama affrontare il passato, Paolo Poli, come quando rifiutò di recitare in quell’”Otto e Mezzo” dell’amico Fellini perché preferiva il rapporto diretto con il pubblico, e guai anche a parlargli del futuro, delle giovani generazioni alle quali consiglia di fare i pizzaioli. Gli piace invece la provincia, “dove c’è ancora il sangue delle persone”, forse perché ogni volta che vi arriva è un evento a cui pochi rinunciano.
Maestro di un genere teatrale che ha contribuito ad inventare, anche se non lo vuole ammettere, Poli ha ancora tanta voglia di recitare e una grinta davvero invidiabile.