Lucia Guarino e Ilenia Romano, dal sodalizio ai progetti autonomi presentati a Teatri di Vetro 24
Lo spazio di un festival è uno spazio di realtà tangibile, che interviene nel mondo perché fisicamente ne occupa uno spazio aperto al pubblico, insediandosi in luoghi che nel resto dell’anno sono altra cosa, o sono la stessa ma altrimenti (com’è il caso del romano Teatro India, dove Teatri di Vetro ha messo in scena la sua sezione più ampia, “Oscillazioni”), e chiama a convegno persone, le mette in agitazione, semina tra di loro, come già abbiamo scritto, desiderio e paura.
Non sarà originale, ma sembra calzante richiamare qui la definizione della “capacità di creare realtà” che Shannon Jackson rivendicava per la performatività, associando a chi sta “dentro” il lavoro anche chi lo programma, al curatore.
Nel ricco volume a cura di Piersandra Di Matteo, “Performance + curatela”, edito per Sossella, oltre alla formula di Jackson si aggira anche una domanda, cioè in che misura un festival rappresenti uno “stato d’eccezione”, e che cosa accade quando quest’eccezione si riallinea con la regolarità del tempo normale, allo spegnersi dell’ultimo lavoro, alla sua assenza.
Il festival romano di arti performative diretto da diciott’anni da Roberta Nicolai si è chiuso tre giorni fa, sabato 21 dicembre. Le sale dell’India giacciono nel silenzio fino al 27, quando riapriranno per tutt’altro. Ma alla chiusura del (metaforico) sipario, un filo di luce filtra tra le cortine, attraversa non solo una sala deserta ma anche trecentocinquanta giorni di non-festival. E risponde all’essenziale domanda “come usiamo questo tempo tra”, che si pone Silvia Bottiroli nel volume “How to build a Manifesto for the future of a festival”, curato una decina d’anni fa nell’orbita santarcangiolese.
Cosa succede alla “nave dei folli” evocata dalla sua direttrice artistica nel catalogo di quest’edizione, una volta che, fatto l’approdo, i naviganti sono discesi?
Nella sua interpretazione dell’azione e del mestiere della curatela delle arti performative, Roberta Nicolai incarna doppiamente quella caratteristica di creatrice di realtà a cui fa riferimento la definizione Jacksoniana, si potrebbe dire con un duplice impegno maieutico. Da un lato è, naturalmente, dietro l’ordito intertestuale (e ipertestuale) della programmazione del festival, operando scelte che mettono senza difficoltà al bando inclinazioni di gusto, personalistiche, idiosincratiche, lasciando che si contaminino la furia leggera, paradossale e comunicativa di Silvia Gribaudi e Tereza Ondrová, con il loro “Insectum”, e l’algido dispositivo – al limite della sterilità – di “Monás” di Teatringestazione, un setto che divide la società degli spettatori, in platea, da quelli in scena, dietro un telo da proiezione, dove lo stesso pubblico è chiamato a formare una “società provvisoria” di attori/spettatori di una debordiana società dello spettacolo, la cui immagine è lavorata nel senso della permanenza sullo schermo, a beneficio di chi guarda, con le parole del filosofo francese date in sovraimpressione e, temporalmente sfasate, in audio.
Nessun problema a presentarci, a poche ore di distanza, l’apertura verso una scrittura orientata a una conclusione teleologica e dolcemente confortante, come l’entusiasmante “ZugZwang” di Elisabetta e Gennaro Andrea Lauro, e l’esposizione di un gorgo, di un materiale concettuale sempre ricercantesi, qual è il problema della rappresentazione nel teatro, rimuginato dal Carmelo Bene ricostruito nel quinto capitolo de “La parte maledetta” di Clemente Tafuri.
Così sugli stessi palchi s’incontrano il tradizionale accoglimento di frammenti di lavoro, di prime aperture di appunti (Dehors/Audela e Bartolini/Baronio alle prese con nuovi materiali) e il debutto di opere giunte a una piena, intensa maturazione che, come il “Tricksters” di Operabianco, sembra nutrita, enfiata dei succhi provenienti da una ricerca di anni e lavori precedenti.
Ma in seconda battuta (ed è questo l’altro lato dell’impegno di Nicolai), di alcune delle opere presentate ha condiviso, in misura diversa, il lavoro drammaturgico, nella forma di collaboratrice o sostegno, di occhio critico e artistico di confronto, con un ruolo le cui qualità sono quelle della facilitatrice, più che della co-creatrice, come ha chiarito a chi scrive in una breve conversazione epistolare, oltre che in molti incontri di persona. E nuovamente l’apertura alla diversità, alla contraddizione è materia prima del suo intervento.

Lucia Guarino e Ilenia Romano erano state protagoniste, lo scorso anno, di quel “Somewhere“, selezionato anche alla NID Platform. Oggi le due coreografe e danzatrici sciolgono il temporaneo sodalizio e prendono due direzioni formalmente opposte.
Guarino con il suo “Pinocch-io” inaugura un atto di passaggio artistico verso una dimensione schiettamente performativa, in cui il corpo non si dà quale più o meno pacificato tramite, ma si costituisce come terreno di lotta e di costruzione di linguaggio e di senso (e di conseguenza il linguaggio stesso, come il senso, porta i segni candidi di un’infanzia). Corpo costruttore nelle sue specifiche qualità materiali, un corpo leggero, in cui le mani possono afferrare le schiere delle costole, volto dolente; ma anche nel versante simbolico.
Si tratta di un corpo che qui vive lo spazio in alcune stazioni, caratterizzate da precisi momenti: ora il Pinocchio del titolo sperimenta la propria nuda presenza, piantato sui due arti inferiori; ora accarezza i propri tratti somatici, li mette alla prova per la vita; ora è il lungo bastone a mostrarsi come l’arcinoto naso bugiardo; ora è adattato a fioretto e porta il Pinocchio cresciuto a tirare di scherma nell’agone della vita.
Ilaria Romano, invece, attraverso una organizzazione del corpo, mantiene sia nella sua geografia che nel suo specifico rapporto con la musica tutte le caratteristiche della danza. Nel rapporto con il contrabbasso di Giacomo Piermatti, che esegue la quattro parti del “Voyage that never ends” di Stefano Scodanibbio, è tutta una serie di risonanze (lo strumento è sfruttato in tutte le sue corde e in tutte le sue tecniche, dal suono pieno agli armonici, dall’uso dell’arco al picchiettato, al pizzicato, al suono “col legno”) e di scordature, in cui è la risultante tra corpo e suono a far emergere quel “terzo suono” indicibile dell’essere.

Ora, la presenza del lavoro di Roberta Nicolai non è, come si diceva, riscontrabile in una inclinazione verso un certo tipo di strumenti rappresentativi né, ovviamente, in una o in un’altra tematica: le opere nascono e rimangono orientate dalle scelte delle artiste. Ma se si dovesse recuperare un segno, provare a divinarlo quasi, all’interno di quei lavori, entrambi centrati su due soggetti-io ora alla prova del mondo (Guarino), ora a quella della fibra del proprio sentire (Romano), sarebbe come un movimento sempre vigile di riconduzione al centro, una specie di insistito rifiuto della tangente, un moto concentrico di focalizzazione che spinge a un affondo verticale, scettico di fronte alla declinazione, intento più alla radice che alle desinenze. È una qualità che hanno entrambi i lavori: “Pinocch-io” mantiene sul palco alcuni oggetti (un’arancia, una corda per saltare, un quaderno) ai quali si allude ma che a stento si adoperano, non costituiscono altro che suggerimenti; “Strings” si muove su un piano sì orizzontale, ed è quello delle diverse interazioni e risonanze corpo-musica, ma da quell’attività non si stacca, dall’ascolto non si distacca mai.
Ecco allora cosa accade sotto quel filo di luce che filtra tra le falde del sipario del Teatro India durante l’anno. Un’attività di ascolto, di vicinanza (“so cosa significa lavorare in solitaria per mesi – come hanno fatto loro”, scrive Nicolai in quello scambio informale), di affiancamento e sponda interno, ma in ascolto e alla comune ricerca di “progressivi avvicinamenti a quello stato corporeo che le avrebbe consentito di abitare la scena come una creatura in trasformazione” (con Lucia Guarino) o a non abbandonare, trascinate dal virtuosismo di una tecnica impressionante, “il cuore del problema” (con Ilenia Romano), attraverso i lunghi mesi di ricerca, le residenze, i tentativi, le versioni da respingere o approfondire – nel pieno spirito di “Trasmissioni” la sezione più aperta di Teatri di Vetro, in cui i processi sono condivisi con critici, studiosi, allievi.
Tra domande, materiali e aiuto nell’opera di continua rifocalizzazione dei problemi, nell’assistenza alla composizione, vive il non-festival di Teatri di Vetro e di Nicolai (“Io ho funzionato in risposta alle loro necessità”): così vivono il lungo “tempo tra“.