Roma Fringe, la finale 2015 tra urgenza, storia, dolore e bellezza

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Giorgia Mazzucato|Dario Aggioli|Pierre-Yves Massip|La premiazione di Fak Fek Fik|Il pubblico del Fringe
Giorgia Mazzucato
Giorgia Mazzucato

Una festa si giudica dagli invitati. Tre attrici, la merda, un ossessivo “il Duce” ripetuto sulle stesse tre note cento volte, un ménage à trois tra la poesia e due amanti, il fronte: la festa finale del Roma Fringe Festival vive di questo e d’altro.
Altri invitati, come tessuti a chilometri, cinque settimane di spettacoli, più di trecento repliche, braccia e gambe e gole di cento e più attori, pubblico, occhi, teste, mani di tecnici, suoni, sedie, parole dette e scritte, e passi sopra e sotto il palco, topi, scalini, biglietti: la moda delle liste potrebbe metterci in un’impresa impossibile.

La festa è riuscita, e in una finale che lo ha visto opporsi agli altri semifinalisti – “Guerriere”, “Gli ebrei sono matti” e “Les Aimants” – vince “Fäk Fek Fik – Le tre giovani”.
Così, in una sorta di cosmogonia dell’uomo moderno, la finale sembra disegnare tra i palchi quel filo che ci porta dal 1915 al 2015, dalla sofferenza della prima guerra mondiale alla psicosi del ventennio fascista, dall’amore nel surrealismo francese alla crisi dell’identità contemporanea. A ricordarci, in tre spazi scenici, che “la sofferenza ci minaccia da tre parti: dal nostro corpo che, destinato a deperire e a disfarsi, non può eludere quei segnali di allarme che sono il dolore e l’angoscia; dal mondo esterno che contro noi può infierire con strapotenti spietate forze distruttive; e infine dalle nostre relazioni con altri uomini” (“Il disagio della civiltà”).

Sperimenta il sacrificio e il disfarsi del corpo la protagonista di “Guerriere”. Si fa portatrice carnica Giorgia Mazzucato, con la gerla sulle spalle carica di una testimonianza storica che sorprende per generosità di descrizione del panorama femminile della prima guerra mondiale, ai più sconosciuto.
È un’ascesa alla vetta la sua, con in bocca un inno all’Italia del quale siamo dimentichi, dal ritmo preciso, dal bagaglio pesante di una scenografia che ingombra come qualcosa di non essenziale al passo, ma sostenuta dal respiro di un testo supervisionato da Aldo Cazzullo e forte dell’incontro con Franca Rame e Dario Fo.

La donna di Mazzucato si scinde nel trittico della scena. Le tre donne interpretate dall’autrice raccontano la loro Grande Guerra, ricordando come il femminile racchiuda in sé la cura e la pazienza, la forza e il coraggio, e la vezzosità, pure.
In uno spettacolo che si fa documento prezioso, l’autrice guarda dietro il tricolore senza cadere nella mistificazione di una celebrazione. L’interpretazione, che non risparmia in ironia e precisione, perde il passo nella parte drammatica durante la quale l’attrice lascia per qualche istante la mano del pubblico che si adagia ai lati del sentiero.

Dario Aggioli
Dario Aggioli

Procede lungo il secolo breve “Gli Ebrei sono matti” di Teatro Forsennato: nascosto in un manicomio, in un gioco di rispecchiamento, un ebreo cerca di assumere la configurazione mentale del malato psichiatrico suo compagno di stanza.
Rinchiuso in una realtà privata piena di fantasmi e in un narcisismo primario che lo rende incapace di riconoscere l’altro come diverso da sé, il ‘matto’ di Dario Aggioli smonta con ironia i fasti di un regime e anticipa il decadimento delle relazioni umane nei nostri tempi.

L’interpretazione di Aggioli, menzione speciale della giuria, disegna infatti egregiamente un’identità psicotica e frammentata, il pensiero che non è fluido, fissato su alcuni ricordi, ossessivo, sganciato dalla realtà; tra tormentoni e stereotipie, riferimenti pirandelliani alle maschere sintomo di una crisi d’identità e allo stesso tempo ritraumatizzazione, l’attore riproduce quel ripiegamento su sé stessi che è impossibilità di stare nella relazione con l’altro e con il mondo reale. Va così a fondo Aggioli che la giusta mancanza di relazione nella stanza manicomiale tira forse troppo fuori un compagno di scena poco incisivo, mera estensione del matto, che non riesce a inserirsi efficacemente, complice anche l’andamento circolare della trama.

Pierre-Yves Massip
Pierre-Yves Massip

Indaga il gioco magnetico della relazione l’equilibrio e la bellezza poetica di “Les Aimants” (Compagnia Mangano-Massip – Associazione Autour du Mime, con Sara Mangano e Pierre-Yves Massip), un teatro danza gestuale e comunicativo, strettamente frontale, senza troppi segreti, imperturbabilmente corretto e lineare e riuscito nel riprodurre il gioco di forze tra due amanti.

In scena due danzatori ci raccontano una storia d’amore squisitamente francese, fatta di lampioni, trench cammello, crocchie, arance prese a morsi con tutta la buccia, scarpe di vernice. Una finestra, una veneziana, una panchina nel parco. Fisarmoniche.
Diviso in scene forse più giustapposte che consequenziali, una gioia per gli occhi più desiderosi di malie nostalgiche e per il cuore dei più sentimentali, tanti momenti minuziosamente distribuiti sui corpi inappuntabili in contatto e alla ricerca di esso, sui piedi, sulle mani, sui volti, sugli oggetti. Un’ombra di Peynet, un refolo di Prévert, una lacrima dolce à la Piaf, e un meritato premio Miglior Attore al generoso Pierre Yves Massip.

La premiazione di Fak Fek Fik
La premiazione di Fak Fek Fik

Dall’altro capo dell’universo teatrale il trionfatore “Fäk Fek Fik”, regia di Dante Antonelli, che Klp aveva intervistato giusto l’estate scorsa, e le attrici-autrici: Martina Badiluzzi, Ylenya Giovanna Cammisa, Arianna Pozzoli, premiate nel doppio ruolo, allestimento scenico di Francesco Tasselli, ambiente sonoro di Samuele Cestola.

Lo spettacolo è veramente il perfetto lavoro da Fringe. Perfetto nella sua imperfezione, è da Fringe perché risponde completamente alla contemporaneità, e precisamente a quella del mutamento colto sul fatto. Dalla semifinale alcune variazioni sceniche e persino di testo sono state apportate, confermando da subito questo primo lato dell’imperfezione, il meno fondamentale, quello diacronico.
Le tre attrici, poi, compongono e mettono in scena un testo frammentario, nettamente diviso in due parti talvolta scollate al loro interno ma piene, di piglio e di energia. In alcuni passaggi ciascuno dei due “tempi” mostra una coesione non perfetta, patisce alcuni inserimenti forse arbitrari di materiale alloctono rispetto alle prime stesure. Eppure queste crepe del percorso risulteranno per contro vincenti, a patto che si accetti di considerare la struttura come tematica.

E ancora: l’operazione, guardata dal punto di vista del testo originale, “Le presidentesse” di Werner Schwab, si propone come una riscrittura che procede in modo nuovo non tanto rispetto al suo originale, ma rispetto proprio all’azione del riscrivere. I tre personaggi del drammaturgo austriaco sono minuziosamente non rappresentati ma tradotti coi corpi, coi nomi, colle circostanze, e forse anche con i tratti delle esperienze più o meno reali delle tre attrici-autrici. Immutati restano però non solo i grandi temi dello squallore, della povertà materiale e spirituale, della sporcizia e dell’umiliazione, della violenza e del disgusto, ma anche i piccoli, e certe omonimie analogiche, certi particolari, certi vezzi, certe apparizioni gratuite, persino certe clausole.

Cosicché liquidità dello spettacolo (suscettibile di correzioni e aggiornamenti), struttura testuale e registica (scomposta proprio come le nostre vite, ma forse proprio come esse tenuta insieme a forza da un odioso tappeto di live electronics), operazione di riscrittura (goffa e sperimentale allo stesso tempo, adatta al tempo di chi deve reimparare a gestire un classico, a farne memoria e materiale di continuo ritorno) si uniscono ad una recitazione forte, fortissima, programmaticamente faticosa, e danno insieme vita a un monstrum di realismo nuovo, implacabile e inatteso.

Ma non basta. Forse “Fäk Fek Fik” è perfetto nella sua imperfezione perché, oltre a tutto ciò, esalta implicitamente il pervenire a questa imperfezione (non trasudano misteriosamente questo i tre corpi che si spogliano nudi, così diversi, lancinanti?), e ciò gli permette di parlarci con un’immediatezza tanto diretta da essere sguaiata, offensiva. Grazie ad essa, frutto insieme di mancanza, rottura nevrotica e struggente nostalgia di struttura, il palco ci fa specchio, ed è contemporaneamente davanti e dentro di noi.
Dalle Alpi alle Piramidi del teatro contemporaneo, nel diorama del Fringe anche loro a ricordarci che per salvarci “oggi è il solo tempo che c’è, il resto non esiste”.
Anche perché, come direbbero le Guerriere, “morire va bene, ma non oggi”.

Qui tutti gli altri premiati!

Il pubblico del Fringe, tra cui il nostro Luca Lotano
Il pubblico del Fringe, tra cui il nostro Luca Lotano
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