Senso comune. Il disagio sociale per la IV edizione dell’Argot Off

Senso comune - Teatri dei Venti
Senso comune - Teatri dei Venti
Senso comune – Teatri dei Venti (photo: Dante Farricella)
Nella primavera romana sbocciano come fiori i festival e le rassegne teatrali, illuminando la città come lucciole. Terminato lo scorso week-end Teatri di Vetro 6, con una particolare affluenza di pubblico che gli organizzatori dicono maggiore rispetto agli anni passati nonostante la crisi, il 29 maggio si è aperta la rassegna Argot Off – Un sentiero per il futuro, giunta quest’anno alla sua quarta edizione.

La rassegna è organizzata da Tiziano Panici e Francesco Frangipane del Teatro Argot Studio con la collaborazione di una serie di realtà romane. Novità di quest’anno è il sostegno di Roma Capitale – Assessorato alle Politiche Culturali e Centro Storico.

La prima serata ha aperto le porte della rassegna a colpi di cannone. Lo spettacolo scelto per dare l’impronta iniziale all’evento è stato “Senso Comune”, finalista al Premio Scenario per Ustica 2012, di Teatro dei Venti.
Mentre la terra del nord Italia trema e non in senso metaforico, il piccolo spazio dell’Argot Studio ha tremato per la forza di uno spettacolo inquietante.

Prima di addentrarci in questa pièce dissacrante e onirica, è importante per la sua comprensione dare un’occhiata al passato dellacompagnia, di origine napoletana e residente a Modena. L’associazione Nido dei Venti nasce nel 2002 e offre da allora la possibilità di confronto e scambio a giovani professionisti che operano nel campo delle arti performative. Per questo motivo nel 2005 i soci fondano il Teatro dei Venti – Centro per la Ricerca Teatrale. La loro produzione, l’organizzazione di eventi e i laboratori pedagogico-teatrali hanno le loro basi strutturali, ideali ed etiche sul particolare interesse dei membri della compagnia per l’utilizzo sociale dell’arte e della sua potenza comunicativa. Dal 2006 infatti il Teatro dei Venti organizza un laboratorio teatrale all’interno della Casa di Reclusione di Castelfranco Emilia. Dal 2009 il Teatro dei Venti è tra i soci fondatori del Coordinamento di Teatro Carcere Emilia Romagna, un progetto nato per mettere in rete le esperienze di teatro carcere esistenti in regione.

L’interesse per il sociale di Teatro dei Venti e la loro conoscenza profonda delle realtà disagiate, spesso vittime della povertà e della criminalità organizzata, la loro familiarità con vite spezzate e segregate ai margini della società, hanno generato e dato ispirazione a gran parte dello spettacolo “Senso Comune”.

Il buio circonda un ricordo; una leggera luce sulla testa di un uomo che racconta un’evento passato; una pistola puntata contro un ragazzo, poco più che bambino, una minaccia che segna la vita. “Ancora ricordo il sapore del ferro in bocca”, racconta, fermo, impassibile, seduto di fronte a noi spettatori. La sua voce, a un certo punto, si accavalla a quella off (dell’attore Ernesto Mahieux, Premio David di Donatello 2008).

Così il ricordo diviene presente e viceversa. Il tempo e lo spazio si confondono nelle due voci e la narrazione perde da questo momento in poi, per l’intero spettacolo, la sua linearità, disfacendosi in mille immagini e sensazioni, in sfaccettature tra sogno e veglia. “Ho raccontato questa storia che non vedrete, ma è il motivo di ciò che vedrete”, conclude l’anziana voce off.

E così è. Il narratore, nonchè regista, Stefano Té esce di scena introducendo al suo posto gli altri personaggi come fossero sue visioni o incubi. Il luogo è un sottoscala di uno dei grandi palazzi del quartiere dell’estrema periferia Nord di Napoli, Scampia, tra bidoni, tinozze, secchi, ferri vecchi, detersivi e, soprattutto, completamente circondato da taniche di plastica bianche.
I personaggi compaiono e spariscono in continuazione. Non dialogano tra loro, silenziosi con la voce quanto più “rumorosi” con il volto. Al loro posto parla ininterrottamente una trasmissione radiofonica, che trasmette le telefonate degli ascoltatori. Loro sì hanno molto da dire, anche troppo, le parole in dialetto napoletano si confondono con la musica, generando il quadro di un’intero quartiere: la vecchina e i suoi rumorosi nipotini che giocano in strada; la donna in cerca di amore, moglie e madre circondata da una solitudine inappagabile; c’è chi ride, chi piange, chi ha paura. Ogni attore sembra vivere più personaggi.

Lei, Francesca Figini, ascolta dal suo seminterrato musiche neomelodiche durante le pulizie quotidiane; sembra prostituirsi; moglie e vittima di aggressione e intimidazione. Lui, Antonio Santangelo, è un giovane tossicodipendente che, parlando al “professò”, descrive passo passo la preparazione del caffè napoletano, ma di fronte a sé non ha tazzina e caffè bensì cucchiaino, accendino, polvere binca e una siringa.
Diviene poi un ragazzo che, col casco integrale oscurato, probabilmente viaggia sulla sua moto per qualche scippo, ma da carnefice diviene presto vittima, perchè chi ha il potere non si sporca le mani per le strade, e la sua stessa pistola gli si ritorce contro, puntata alla testa. Un colpo, due colpi, mille colpi violenti sul casco: si accascia, perdendo dignità, forza, futuro.

Il terzo personaggio, interpretato da Igino Luigi Caselgrandi (compositore delle musiche di scena insieme a Matteo Valenzi), è enigmatico più degli altri. Il suo vissuto, la sua esperienza si traducono in suono, o per meglio dire in ritmo, battendo con le bacchette da batterista su bidone di ferro e taniche.
Più che avere una forza individuale il personaggio sembra dare senso emotivo, la direzione sensoriale e conoscitiva, di ciò che è creato in scena dagli altri due. Un generatore vivente di commento sonoro.  

In un crescendo di vuoti, silenzi, voci attutite della radio e musiche melodiche, la violenza si scatena. Ogni immagine aggredisce i sensi e la mente dello spettatore, divertendosi in un gioco minaccioso di aggressione e confusione.
Il pubblico viene infatti aggredito dai forti battiti delle bacchette sul bidone, fino quasi a far stridere i timpani, e viene violentato visivamente dalla luce stroboscopica, come a dire: la realtà dei fatti è dura, e te la sbatto in faccia.

Dietro la protezione della definizione di “opera onirica”, come precisa la presentazione stessa dello spettacolo, la povertà del testo e una certa confusione narrativa probabilmente acquistano un senso.
I 40 minuti di spettacolo, ricchi di immagini e suggestioni, lasciano senza dubbio arrivare il vero volto di alcune realtà sociali, ma donano a spettatori affamati di contenuti storico-sociali e politici poco nuovo materiale su cui realmente ragionare e riflettere. A volte lo spettatore richiede di essere scalfito, colpito, attraversato dai contenuti, pugnalato mentalmente, assordato dalle parole.

Lo spettacolo lascia allora perplessi e appare come lo studio non ancora concluso di uno spettacolo dal potenziale altissimo. La preparazione degli attori e le capacità del regista, sia per la sensibilità verso una tematica molto difficile da affrontare, sia per il loro vissuto professionale, ci lasciano sperare in un’evoluzione dello spettacolo con un’attenzione maggiore alla comunicabilità e ai contenuti.

Più che i colpi di pistola alla testa, la distruzione delle piramidi di bidoni, i violenti battiti sul bidone, la vera bomba emozionale dello spettacolo è lanciata nell’ultima scena, in cui il buio divora lentamente i personaggi seduti a tavola mentre mangiano in silenzio gli spaghetti, le loro forchette tintinnano sui piatti, il lumino rosso illumina un’immagine sacra della Madonna. Il buio fa svanire i personaggi, con la divinità cattolica a “vegliare” sulle loro vite.

Senso Comune
con: Igino Luigi Caselgrandi, Francesca Figini, Antonio Santangelo
regia: Stefano Tè
musiche: Igino Luigi Caselgrandi, Matteo Valenzi
durata: 40′
applausi del pubblico: 2′

Visto a Roma, Argot Studio, il 29 maggio 2012

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