“Andare in scena mentre di là si bombarda è giusto?”. Con Silvia Mercuriati per un teatro che smuova il pensiero
Giunta alla sua quarta edizione, “Sguardi – Storie non ordinarie”, la stagione teatrale di Pianezza a cura di Progetto Zoran, in collaborazione con Cortocircuito – Fondazione Piemonte dal Vivo, si apre giovedì 7 novembre alla Multisala Lumière con “Muri”, uno spettacolo corale di teatro civile creato dalla stessa compagnia organizzatrice, e si conclude giovedì 5 giugno nel parco di Villa Lascaris con “Elegia delle cose perdute”, scritto, diretto e coreografato da Stefano Mazzotta per la compagnia Zerogrammi.
In continuità con le edizioni precedenti, la scelta è di focalizzarsi sul teatro contemporaneo nelle sue varie declinazioni estetiche, e di approfondire contenuti e questioni attuali in cui sia facile specchiarsi per poi interrogarsi e avviare un dibattito, o meglio una chiacchierata informale, a fine spettacolo, tra artisti, organizzatori e spettatori.
Immutato anche il giorno infrasettimanale dedicato agli spettacoli, per un totale di dieci giovedì, circa uno al mese, sempre alle ore 21, una consuetudine che il pubblico pianezzese (e non solo) ha accolto favorevolmente nel corso degli anni.
A leggere il programma ci si accorge che Sguardi, pur nella sua varietà di proposte, non intende offrire un po’ di tutto, ma è il risultato di scelte ben precise e coerenti. Alcune parole-chiave svelano i punti di partenza, gli obiettivi e le caratteristiche della stagione. “Sguardi, piazza, contemporaneità, qualità, linguaggi”: le stesse parole da tre anni, a cui forse quest’anno si potrebbero aggiungere: relazione, conflitto, incontro.
Chiediamo a Silvia Mercuriati, ideatrice e direttrice artistica della stagione, di ripercorrere insieme il significato di queste parole, in relazione anche agli spettacoli ospiti di questa edizione.
Partiamo dal titolo: “Sguardi”. Come nasce?
Durante la gestazione, quattro anni fa (eravamo ancora in pre-pandemia), ci accorgemmo presto, facendo una breve ricerca, che questo titolo non sarebbe stato originale, era infatti già stato utilizzato; tuttavia, ci sembrava che occorresse partire proprio da quel concetto, cioè dal guardare “oltre”, da un guardare che fosse più ampio possibile.
Il progetto di stagione non è nato da un’esigenza o – come si usa dire fra teatranti – da un’urgenza nostra, ma da un lavoro decennale fatto sul territorio e dall’ascolto di richieste che ci arrivavano dalle persone che frequentavano le nostre attività e assistevano ai piccoli studi che ospitavano nei nostri spazi. Dopo essermi confrontata con un po’ di persone, ho realizzato che non era importante che il titolo fosse originale, quanto che fosse chiaro il concetto: usare lo sguardo come una lente d’ingrandimento. La cosa più faticosa è scegliere di abbandonare il sottotitolo. Generalmente ogni anno si cambia. Invece sono quattro anni che manteniamo lo stesso sottotitolo: “Storie non ordinarie”. È un po’ come voler mettere l’attenzione sulla diversità e sulla bellezza della diversità, e sul fatto che ognuno di noi ha un proprio percorso, che è assolutamente diverso, non è uguale a quello di nessun altro. E così sono i racconti che ospitiamo nella stagione e che ci permettono di specchiarci, di posare lo sguardo sull’altro per andare a cercare cose che ci appartengono o che sono totalmente lontane da noi. Per me questa è la priorità: raccontare storie reali o ispirate alla nostra realtà che possono parlare a ciascuno del pubblico.
Ascoltandoti non posso che pensare ad “Afanisi” della Compagnia Ctrl+Alt+Canc, in programma il 30 gennaio al Barrocco, una performance che rovescia i rapporti tra spettatore e spettacolo, tra realtà e sguardo, in cui il teatro non è più la cosa che si guarda ma ciò da cui si è guardati.
Un progetto molto interessante, vincitore del Bando In-Box Generation 2024 e del Premio della Giuria Critica a Direction Under 30 2023. Ogni anno scegliamo di ospitare almeno una compagnia giovane, per mantenere sempre lo sguardo su chi produce e rischia di più e lo fa con pochi soldi. Il teatro, lo sappiamo, è qualcosa che si compie in un dato momento, in un dato luogo, con la relazione tra attori e spettatori. Lo sono tutti gli spettacoli, ma questo lo è in maniera più specifica. Anche il Teatro delle Ariette ci offre un altro bell’esempio di quanto questa relazione, questa comunione – mi piace chiamarla così – sia davvero ciò che fa la differenza.
A proposito delle Ariette: saranno in scena il 13 febbraio nel salone di San Pancrazio con “Teatro da mangiare?”, uno spettacolo che ha debuttato nel 2000. So che in generale preferite non ospitare debutti per dare l’opportunità – in particolare alle giovani compagnie – di rappresentare uno spettacolo per cui si è lavorato molto ma che spesso si esaurisce in poche repliche per ragioni di mercato. Nel caso dello spettacolo del Teatro delle Ariette, che ha collezionato oltre 1300 repliche, qual è stato invece il motivo della scelta?
Loro sono un’eccellenza e io sono una loro fan. Li ho inseguiti per averli. Ho visto anche il loro ultimo lavoro, ma volevo farli conoscere al pubblico di Pianezza con il loro primo spettacolo, un evergreen, costruito con una semplicità e una forza talmente dirompente da sopravvivere nel tempo. In questo spettacolo, che passa anche attraverso la condivisione del cibo, la comunione è totale.
Passiamo a un’altra parola che a questa è collegata: piazza. Uno dei vostri obiettivi è sempre stato e continua ad essere quello di vivere il teatro come una piazza, dove ci si incontra, si ascoltano storie e ci si confronta. Quali sono le piazze a cui avete pensato quest’anno?
Se negli anni passati la maggior parte degli spettacoli si è svolta al Barrocco, uno spazio che non è un teatro ma forse tra quelli che usiamo è quello che più si avvicina all’idea canonica di spazio teatrale, quest’anno ne proponiamo vari al cinema, la Multisala Lumière, che ci pone forzatamente in un’altra dimensione di ascolto. Non è un caso che cominciamo lì con “Muri”, una nostra produzione, che si compone di una parte visiva molto forte (immagini di repertorio della caduta del muro di Berlino). In questo stesso spazio è in programma il 13 marzo “La mia battaglia vr”, scritto da Elio Germano e Chiara Lagani, uno spettacolo che è in realtà virtuale e prevede l’utilizzo dei visori; segue il 27 marzo la proiezione di “Elegia – Il film” di Stefano Mazzotta, che anticipa lo spettacolo di fine stagione con il linguaggio della danza; infine, il 17 aprile la sala ospiterà “Missing outs”, un laboratorio con esito performativo a cura di Elisabetta Consonni, che passa attraverso la sperimentazione pratica del doppiaggio cinematografico sui discorsi proclamati da grandi personaggi della storia.
Vogliamo quindi riepilogare i luoghi della rassegna e spiegare perché la scelta di optare per spazi teatrali diversi?
Certo. Dunque, abbiamo il Barrocco, la Multisala Lumière, il Salone di San Pancrazio che accoglierà il Teatro delle Ariette perché è un luogo molto intimo, e chiudiamo la stagione con lo spettacolo di Zerogrammi nel parco di Villa Lascaris, dove si è svolta anche la conferenza stampa. La collaborazione con Villa Lascaris è attiva e molto forte. Quest’anno abbiamo deciso che le immagini di tutti i materiali promozionali venissero realizzate nella Galleria Bricca, all’interno di Villa Lascaris, ancora oggi integra, attraverso cui la popolana Maria Bricca riuscì, un po’ come Pietro Micca a Torino, a sconfiggere i Francesi e liberare Pianezza dal loro dominio. La scelta di luoghi diversi, non convenzionali, un po’ ci facilita, perché il pubblico in questo modo si sente meno blindato e la stagione non appare come una vetrina.
Spazi teatrali non convenzionali, ma anche carichi di storia, a cui il territorio è profondamente legato. E questo ci rimanda al concetto metaforico di piazza, che nasce dall’incontro stretto con la cittadinanza, per voi fondamentale.
Sì, per me è fondamentale. Il teatro come piazza, luogo e momento in cui è possibile trovarsi e confrontarsi. Cercheremo infatti di implementare i momenti di chiacchiera dopo gli spettacoli. Abbiamo anche previsto un piccolo progetto speciale per gli abbonati (preziosissimi perché ci danno dei feedback importanti): organizzeremo a fine stagione con loro una merenda sinoira, “di chiacchiera e di spetteguless”, l’abbiamo chiamata così.
So che c’è un discreto numero di affezionati spettatori torinesi che si sposta per assistere agli spettacoli che proponete, ma è principalmente al pubblico pianezzese che vi indirizzate, optando per spettacoli anche molto lontani dal teatro cosiddetto tradizionale, puntando non al facile consenso ma alla qualità delle proposte. C’è una dose di rischio in tutto questo, no?
Sì, ma la qualità ci preme, sopra ogni cosa. Siamo partiti da questo territorio, che potrebbe aver facilmente accesso alla ricchissima produzione piemontese ma in realtà non ne fruisce, o troppo poco. L’idea era di andare nella direzione della divulgazione del teatro e della danza contemporanei. Non serve una laurea per capirli, ma l’essere predisposti e aperti a godersi quell’ora, ora e mezza di parole e immagini e fare in modo di portarsi a casa un pensiero. E vogliamo che il pensiero sia sempre in evoluzione. Più c’è dubbio a fine spettacolo, più vuol dire che lo spettacolo ha funzionato. Il teatro deve essere qualcosa che ci porta a smuovere il pensiero, a trovare noi altre soluzioni. Il pubblico a poco a poco si abitua a questo, si sta abituando.
Stavo riflettendo proprio in queste settimane sui giovani, che a me premono moltissimo. Con loro ci confrontiamo spesso e quest’anno abbiamo deciso di ufficializzare la loro presenza chiamandola “osservatorio dei giovani”. E devo dire che in questi tre anni la loro presenza, il loro modo di raccontare e analizzare ciò che vedono, è cambiato moltissimo. Si sono arricchiti di una consapevolezza maggiore. Si sono resi conto che il teatro che amano fare, perché sono perlopiù allievi dei nostri laboratori, ma che non andavano a vedere, merita di essere frequentato anche come spettatori, e si sono appassionati: è qualcosa che comprendono, con linguaggi che riconoscono, con immagini che appartengono anche a loro.
È chiara la vostra scelta di prediligere la contemporaneità sia per quanto riguarda i contenuti ma anche e soprattutto i linguaggi. La realtà contemporanea è eterogenea e multiforme, così come lo è oggi il teatro. Sembra che questo sia il messaggio.
Magari sarà il passaggio successivo. Il prossimo anno potremmo pensare di eliminare questa suddivisione esplicita dei generi. Un po’ dobbiamo farlo per la SIAE e per i bandi… ma cerchiamo di superare la distinzione. La nostra stagione teatrale, per esempio, si conclude con uno spettacolo di danza, ma include la performance, il film, il teatro di narrazione.
E il teatro civile, a cui non rinunciate mai.
Devo dire che quest’anno c’è tanto teatro civile, più o meno esplicitato, ma va bene così perché siamo in un momento storico in cui il rischio di perdersi è davvero grande; c’è bisogno di ancorarsi alla piazza, non dobbiamo vergognarci di parlare di politica e di quello che accade. La discussione è sempre qualcosa di sano, che va alimentato. Cominciamo proprio con uno spettacolo che parte dall’abbattimento del muro di Berlino, da quello che ci sembrava la caduta di un simbolo e l’inizio di una nuova era. E invece, se all’epoca i muri erano quindici, oggi ce ne sono più di settanta. Muri che limitano lo spostamento, la libertà e la dignità umana.
Il muro è un ostacolo all’incontro, ma costruire delle relazioni sane non è facile. Riconoscere che la relazione non sempre permette l’incontro e che, quando questo non accade, è meglio prendere le distanze, è il messaggio del secondo spettacolo della stagione, il 20 novembre al Barrocco, “Volo – Il primo passo è staccarsi”, scritto, diretto e interpretato da Francesca Brizzolara. Ce lo puoi presentare?
Ogni anno cerchiamo di esaudire i desiderata di un’associazione del territorio. L’anno scorso lo abbiamo fatto con Legalmente, inserendo uno spettacolo sul tema della mafia, quest’anno lo facciamo con Firmato Donna, che lavora moltissimo sul territorio, ospitando uno spettacolo che parla di violenza di genere. Quando la relazione non riesce più ad essere costruttiva, ma diventa un pericolo per la nostra sicurezza, l’unica via è scappare dalla propria prigione e riscostruirsi a poco a poco una vita altrove.
Un altro tipo di relazione conflittuale è quello che analizza Claudio Morici con “La malattia dell’ostrica”, in scena sempre al Barrocco il 16 gennaio.
Sì, anche se lui, pur toccando un argomento forte, come il disagio psichico, lo fa con leggerezza. La follia, che caratterizza i tratti di molte biografie di artisti, intellettuali, filosofi e poeti, è un’altra forma di confinamento. Tra l’altro, noi abbiamo cominciato a lavorare sul territorio di Pianezza proprio partendo da un laboratorio di teatro sociale con pazienti psichiatrici, il primo seme fu proprio quello.
Un altro spettacolo di forte impegno politico è il lavoro di Elio Germano, un segnale d’allarme che Germano lancia contro l’informazione fatta solo di opinioni, la tecnologia che rischia di divenire veicolo di pura distrazione di massa. Chiariamolo subito: non ci sarà Elio Germano. La regia è sua, ma lo spettacolo si fruisce con i visori. È un’esperienza che è frutto di una scelta stilistica e artistica, ma anche economica e perciò politica.
Sono scommesse forti anche queste. Il teatro può essere effettivamente fruito individualmente? È teatro anche se proiettato su uno schermo?
È la direzione che più mi ha affascinato quest’anno. I tempi sono maturi per sperimentarla. Sarà poi molto importante confrontarsi con il pubblico a fine spettacolo. Ci sarà forse più voglia di chiacchierare. C’è anche il film “Elegia” di Stefano Mazzotta, che abbiamo citato prima, dalla fotografia sorprendente. In questo caso mi ha conquistata l’intero progetto di Zerogrammi, che include un progetto fotografico, una graphic novel, un film, offrendo al pubblico una varietà di possibilità di espressione della stessa storia.
Incontriamo infatti di nuovo il lavoro di Zerogrammi in chiusura di stagione, questa volta con uno spettacolo dal vivo, “Elegie delle cose perdute”, il 5 giugno nel parco di Villa Lascaris.
Sono due produzioni separate e volevo che passasse un po’ di tempo, che ci fosse la possibilità da marzo a giugno di far sedimentare i contenuti appresi e magari far nascere la voglia a qualcuno di andarsi a leggere il libro da cui tutto è partito.
Anche quest’anno, ricordiamolo, ci sarà l’esperienza del laboratorio con performance conclusiva. Mi riferisco a “Missing Outs”.
L’esperienza dello scorso anno di “Ballroom” ci è piaciuta moltissimo, e quindi abbiamo pensato di continuare in questa direzione. La scelta con Elisabetta Consonni è stata quindi non tanto di lavorare su uno spettacolo, ma di creare un laboratorio che sarà realizzato alla Lavanderia a Vapore di Collegno, in collaborazione con Morenica (seguirà infatti una replica ad Ivrea). Il lavoro parte da una ricerca che l’artista sta conducendo: grandi discorsi rivolti all’umanità negli ultimi decenni saranno doppiati e rivisti dai partecipanti del laboratorio. Sarà interessante scoprire come questi grandi proclami parlino anche di noi. Un gioco per il pubblico e soprattutto per chi parteciperà al laboratorio.
E poi c’è Tindaro Granata.
Ci siamo occupati tanto di politica, di sociale, chiudiamo con la famiglia. “Antropolaroid” è un racconto autobiografico che andrà in scena il 15 maggio al Barrocco. Tindaro Granata ci parlerà di un momento storico molto preciso, di ciò che accadde nella sua famiglia. Siamo in Sicilia, ma sarà di nuovo come essere davanti allo specchio. D’altronde, ci rassicura Tindaro, “lo spettacolo ha debuttato a Bergamo ed è andato tutto bene”.
C’è, alla base delle vostre scelte e del vostro modo di lavorare, la volontà di fare rete con realtà affini per sensibilità artistica e politica, nel senso più nobile del termine. Tra queste, cito Play with Food, Lavanderia a Vapore, Zerogrammi, Morenica.
Per me è fondamentale. Sono sempre dell’idea che lo scambio è arricchente. L’essere in relazione ti porta inoltre agli scambi di pubblico. Spingiamo i nostri spettatori, per esempio, a frequentare la Lavanderia a Vapore dove si fa danza contemporanea di eccellenza. Questo ponte è per me fondamentale. Più riusciamo ad allargare questa maglia, meglio è.
Un’ultima domanda: c’è qualche pensiero che ti preoccupa in relazione a questa stagione? Stiamo vivendo un momento storico difficile. La gente ha ancora voglia di andare a teatro o ne ha di più? Cosa vuole vedere o sentire? Ha forse bisogno di evadere o di fermarsi a pensare?
La mia preoccupazione è sempre quella di cercare di rimanere lucidi. Andare in scena mentre di là si bombarda è giusto? Non bisognerebbe fermarsi? Forse no, forse la lotta passa attraverso anche questo. La mia preoccupazione più grande è sempre quella di non lasciarsi sopraffare dall’emotività rispetto a quello che stiamo attraversando e vivendo, ma continuare a cercare di costruire qualcosa che aspiri a un mondo migliore. Bisogna andare in scena comunque, nonostante lo sconforto, la fatica e le preoccupazioni, grandi e piccole. Dobbiamo agire. Lo si può fare in mille modi. Si va in piazza, ma si deve anche continuare a fare teatro.