Sid, fra inclusione e diversità. In dialogo con Alberto Boubakar Malanchino

Sid (ph: Luca Del Pia)
Sid (ph: Luca Del Pia)

Lo spettacolo di Cubo Teatro ha vinto il Premio In-Box 23 ed è stato presentato al Kilowatt Festival

Sono stati molti, negli anni, gli spettacoli che hanno messo in scena l’esistenza dei ragazzi (con tutte le sue traversie e delusioni) figli di immigrati giunti in Italia dai paesi di origine che hanno tentato, tra mille difficoltà, di trovare una giusta sistemazione di vita nel nostro Paese.
Ma i figli di quei ragazzi che sono diventati genitori, come vivono oggi le evidenti contraddizioni della nostra società del benessere che li vede sempre più estranei? Sono cambiate le loro prospettive da quelle dei loro padri?
“Sid – fin qui tutto bene” tenta di dare una risposta possibile. Sid, il protagonista dello spettacolo, è un ragazzo di origine nordafricana, interpretato con rara efficacia da Alberto Boubakar Malanchino (nato a Cernusco sul Naviglio, padre italiano e madre del Burkina Faso) che non riesce a concepire una vita di sacrifici e lavoro: vuole tutto e subito; ogni desiderio deve essere esaudito in fretta.

Sid racconta la sua storia, una storia che nasce tra un padre legato ancora ai dettami della religione mussulmana e lampi di razzismo che persistono in una periferia desolata e senza risorse in cui regna la droga, e dove ciò che si ama si ruba. Si presenta a raccontare in prima persona la sua storia, lui nero, tutto vestito di bianco (del resto uno degli psicologi che ha frequentato gli ha detto che il bianco per i mussulmani è sinonimo di lutto): ma qui il bianco è, ben inteso, tutto griffato (Adidas, Lacoste, Fila). Sid si sente, vuole essere, diverso dagli altri amici che frequenta. E forse per questo, dopo il liceo, legge Stendhal e Rimbaud, forse per questo ascolta Mozart. Eppure, dopo notti passate a bere e a fare “cazzate” con gli amici, subentra la noia. E allora cosa si può fare per riempire questa vita?

Il racconto di quest’infelice e feroce esistenza, rischiarata anche da un amore presto s-fuggito, è narrata da Malanchino impastandolo con una specie di rap dai rapidi cambi di tono, in sintonia con la musica dal vivo espressa dalla tromba di Ivan Bert e dalla batteria elettronica di Max Magaldi (vera e propria postazione musicale dalle mille possibilità sonore).

Lo spettacolo scritto e diretto da Girolamo Lucania propone la storia di Sid come un vero e proprio thriller, in cui il protagonista, quasi per necessità, diventa una specie di antieroe che, piano piano, si immerge in un universo più grande di lui che lo porterà a diventare, a volte inconsapevolmente, altre per noia, altre ancora per una rivalsa incosciente, un serial killer infelice e feroce, omaggiato perfino dalle televisioni.

La storia, che la musica investe di atmosfere hip hop, nella sua rappresentazione rimanda a certi fumetti underground o pellicole cinematografiche (ci vengono in mente tra gli altri “American Psycho” della Harron o “L’odio” di Mathieu Kassovitz) procedendo a sbalzi, come del resto la vita del nostro Sid.

Lo spettacolo di Cubo Teatro, vincitore di In-Box con 19 repliche (in scena il 9 e 10 settembre ad Andria), ci pare fin troppo colmo di suggestioni e di tanti avvenimenti che andrebbero forse sfoltiti per condurci più incisivamente vicino al ceppo centrale del discorso, che la coraggiosa creazione ci invita ad approfondire.
Resta il fatto che lo spettacolo pone domande, muove riflessioni che giungono – attraverso i vari linguaggi utilizzati – anche e soprattutto agli spettatori più giovani, mediate un’interpretazione davvero potente ed espressiva. Alberto Malanchino (conosciuto al grande pubblico per aver interpretato anche il personaggio dello specializzando Gabriel Kidane nella fiction di Rai 1 “Doc – Nelle tue mani”) riesce a prenderci di petto, immergendoci in una storia dai risvolti sociali e umani quanto mai necessari da esplorare.

Nato a Cernusco sul Naviglio, in provincia di Milano, nel 1992, Alberto Boubakar Malanchino si è diplomato in recitazione presso la Civica Scuola di Teatro Paolo Grassi di Milano. Nello stesso anno ha partecipato alla Biennale college di Venezia seguendo i Maestri Declan Donnellan, Nick Ormerod e Pascal Rambert.
Dopo la formazione accademica ha iniziato a lavorare come attore di prosa, collaborando con registi come Moni Ovadia e Silvio Peroni. Ma ha anche lavorato sul piccolo schermo, in serie Netflix e al cinema, dove ha interpretato il personaggio di Elvis in “Easy Living”, film scritto e diretto dai fratelli Miyakawa. Lo abbiamo visto anche in scena con Paolo Pierobon nel “Riccardo III” dello Stabile di Torino per la regia di Kriszta Székely.

Il fatto di essere italianissimo ma di pelle nera, in che modo ha condizionato la tua carriera?
Oggi, in Italia, avere una pelle non bianca può essere un freno in diversi ambiti professionali, artistici e non. Ho avuto molte porte chiuse e altre aperte. Se dovessi soffermarmi su un esempio positivo, potrebbe essere la possibilità di aver interpretato il ruolo di Gabriel Kidane nella serie “DOC – nella tue mani”. Un co-protagonista tridimensionale e smarcato da molte situazioni stereotipate. Gabriel è stato uno dei primi personaggi non bianchi nella televisione (e nel cinema) ad aver avuto questo spazio. Purtroppo, per un Gabriel che arriva, ci sono tanti Luca, Filippo e Marco che non ci vengono proposti come ruoli e, quando arriva quella possibilità, il sogno si infrange poco dopo il self tape.

Che parti ti affidano di solito?
Noto che c’è ancora un grande pudore nel restituire, in forma artistica, una visione eterogenea di quello che avviene nella società. Basterebbe guardarsi intorno per rendersi conto che il proprio compagno di scuola è italiano con genitori di origine cinese, oppure avvocati italiani dalla pelle nera e via dicendo. In questa situazione mi rendo conto di avere, nonostante tutto, un privilegio in più rispetto alle mie colleghe. Se per un attore nero il binomio migrante-spacciatore è dietro l’angolo, per un’attrice afrodiscendente il ruolo della prostituta è sempre in prima posizione. I tempi stanno comunque cambiando, e rispetto a dieci anni fa qualche ruolo fuori dalla stereotipo arriva, ma la strada è ancora lunga. Il teatro, purtroppo, è in una fase ancora più embrionale. Il primo ruolo che ho avuto, fuori dal colore, mi è stato affidato quest’anno proprio nel “Riccardo III” dello Stabile di Torino per la regia di Kriszta Székely. Dopo dieci anni di studio e gavetta, ho dovuto aspettare una regista dall’altra parte dell’Europa per fare questo scarto.

Cinema, teatro, televisione. Quali sono le maggiori differenze che hai trovato in questi tre ambiti? Dove senti di esprimerti meglio?
La prima differenza è di carattere tecnico. Si tratta, per me, di riuscire a condensare le competenze che arrivano dal teatro per renderle più fruibili in video. Lo studio del testo e l’analisi del personaggio rimangono invariati. A teatro c’è la possibilità di far sedimentare per molto più tempo le sensibilità del personaggio, grazie alle prove costanti e alla possibilità, per merito delle repliche, di far emergere dei tratti più precisi del ruolo che ti viene affidato.
Non posso dire di sentirmi meglio in un luogo rispetto ad un altro, anche se il rito che avviene ogni sera a teatro è differente. Mettere in scena delle problematiche collettive ogni sera e respirare in quel momento, con il pubblico, ogni parola, ogni sguardo ed emozione, è qualcosa di magico ed arcaico che solo il palco può trasmettere. Il video riesce comunque a svolgere questa funzione anche se, nel momento in cui lo spettatore ti sta guardando, sei già uscito dal ruolo e si crea un paradosso in cui tu, insieme ad altri, svolgi il rito dal punto di vista dello spettatore mentre un altro “te” sta svolgendo il ruolo di “sacerdote”.

Il protagonista di Sid si può chiamare immigrato della terza generazione o è fuorviante? Dal tuo punto di vista di osservatore in qualche modo privilegiato, come sono cambiate le prospettive negli anni dei ragazzi come Sid?
La domanda pone un’interessante riflessione. Il protagonista non è un immigrato della terza generazione: anche parlare di seconde generazioni può essere fuorviante. Se una persona nasce in un posto e non è emigrato, come ad esempio i suoi genitori, perché definirlo immigrato di seconda generazione? Penso che proprio qui stia il punto. Si tende, sovente, a mettere un po’ tutti nello stesso calderone, considerando “l’altro” all’infuori della comunità perché non rispecchia le nostre aspettative, che sono frutto di un’educazione familiare, scolastica, giornalistica etc. Troviamo quindi più facile mettere indiscriminatamente persone arrivate con il barcone, insieme a ragazzi nati qua con un colore non bianco, con migranti arrivati regolarmente sul territorio. Il rischio di questa divisione semplicistica è di creare un “noi” contro gli “altri” anziché accettare le differenze che ci contraddistinguono e ci rendono unici. Esiste un modo solo di essere italiani? Oggi, per merito o colpa della cronaca, c’è molto più interesse nel parlare di questi aspetti, ma i primi interessati raramente vengono interpellati e si crea spesso un dialogo sterile, dove il dibattito prende una componente da tifoseria calcistica degenerata, al posto di affrontare situazioni delicate che dovrebbero essere gestite da tutti gli attori coinvolti.

Esistono i pericoli evidenziati nello spettacolo?
Domanda da un milione di dollari! Potrei dirtene molti, forse troppi. Ti rispondo parafrasando la riflessione di due ragazze di 13 anni che hanno visto lo spettacolo qualche mese fa. Secondo loro il senso di noia di Sid, che lo porta a commettere determinate azioni, era un sensazione che capivano e riconoscevano. Come il tentativo del personaggio di non farsi “beccare” dai suoi amici in libreria per non essere deriso per il suo bisogno di leggere. Preciso, stiamo parlando di due ragazze di 13 anni, bianche e prossime al liceo scientifico, niente di più lontano da Sid, eppure…
Penso che la bellezza di un personaggio come questo prenda luce da simili riflessioni. Noi portiamo in scena la storia di un ragazzo con origini nordafricane, interpretato da me che sono italiano con madre del Burkina Faso; eppure due adolescenti italiane, con genitori italiani, si sono immedesimate su diversi concetti. Quindi possiamo dire di aver verticalizzato un concetto prendendo come spunto una storia molto specifica. In “Sid” niente è lasciato al caso. Lo spettacolo può essere apprezzato oppure no, ma non ci si alza dalla poltrona con la sensazione di essere intoccabili da certe scelte e disagi perché “tanto capita a loro, non a me che faccio parte degli altri”.

Colloquiare con la musica è fondamentale nello spettacolo. Hai usato degli accorgimenti speciali? Come ti sei rapportato con i musicisti?
Grazie per questa domanda! Colgo l’occasione per ringraziare Ivan Bert e Max Magaldi che sono il motore dello spettacolo. Per merito loro ho la possibilità di giocare molto con la musica in scena, a volte stando in un tempo ritmo dettato dai suoni e a volte discostandomene totalmente. Non vedo questo lavoro come un concerto suonato dal vivo, come si tende spesso a catalogarlo, come non si tratta sicuramente di un concerto hip hop. E’ un monologo che ha un largo respiro musicale. I suoni e i musicisti sono parte integrante della drammaturgia, trasformando il monologo in un dialogo a tre.

Hai progetti futuri?
Parteciperò, durante la Mostra del Cinema di Venezia, come giurato all’Edipo Re. Il premio si basa sul “Manifesto per l’inclusione”, un testo redatto da ricercatrici e ricercatori di respiro internazionale che costituisce una guida nel rispetto dei diritti umani e delle differenze di cultura, classe, genere e provenienza. A comporre la giuria insieme a me, Caterina Guzzanti e Carlotta Vagnoli. Per il resto invece… sssh!

SID – Fin qui tutto bene
Con Alberto Boubakar Malanchino
Musica live e sound design Ivan Bert e Max Magaldi
Regia e Drammaturgia Girolamo Lucania
Concept scenografico Ivan Bert
Direzione Tecnica Alessandro Vendrame
Videoproiezioni Niccolò Borgia
Da un’idea di Ivan Bert e Girolamo Lucania
Produzione CUBO TEATRO
Spettacolo vincitore del premio IN-BOX 2023

Visto a Cortona, Kilowatt Festival, il 21 luglio 2023

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