Silvia Pasello nell’oscurità del nulla di Lear. Intervista

Silvia Pasello è Lear (photo: Roberto Palermo)
Silvia Pasello è Lear (photo: Roberto Palermo)

Messinscena senza dubbio “importante”, questo “Lear” che abbiamo visto debuttare a Pontedera, dove rimarrà fino a domenica 10 aprile. E senza dubbio una delle regie più felici tra le ultime di Roberto Bacci.
Di questo re che decide di abdicare dividendo il regno fra le sue tre figlie, decisione da cui poi si scatenerà il dramma, Bacci dà una rappresentazione potente e massiva caratterizzata soprattutto dal grandioso affresco simbolico che offre allo spettatore, delineato dalle carnose tonalità delle luci di Valeria Foti e Stefano Franzoni, e arricchito da riferimenti alti: per far due esempi, il canto XXI dell’Inferno di Dante e “La cacciata dei progenitori” di Masaccio nella figura di Edgard/Tom.

In questa libera rappresentazione di Shakespeare impressionano le scene di Márcio Medina, che costruisce uno spazio in continua trasformazione, con sette grandi sipari di carta che generano luoghi geometrici per accogliere lo svolgimento dell’azione, celare o creare epifanie repentine, scorrendo lateralmente, oppure per liberare d’improvviso personaggi, situazioni e scene. Il tutto felicemente accompagnato dalle musiche originali di Ares Tavolazzi.

Seppur non tutti gli attori appaiano all’altezza del proprio ruolo, lo è senz’altro la protagonista indiscussa di questo lavoro, Silvia Pasello. L’attrice ferrarese restituisce un “Lear” intenso e personale, al quale dona la sua essenza di interprete.
L’abbiamo intervistata al termine della replica di domenica scorsa, confrontandoci con lei sulla tragedia forse più “oscura” del drammaturgo inglese, vero turbine di passioni cieche, follia, lotta tra generazioni, azioni sconsiderate e riflessioni sull’essere umano, sul senso di vuoto che si nasconde in presenza/assenza del potere. Un testo che ancora, a distanza di così tanti anni, continua a sconvolgere e a lasciare senza risposte, a dispetto di un plot all’apparenza chiaro, che la drammaturgia del duo Stefano Geraci / Roberto Bacci ha saputo mantenere, pur coi tagli e le semplificazioni che un libero adattamento richiede.

Glielo avranno già chiesto in tanti, ma com’è nata l’idea di affidare ad una donna il ruolo di Lear?
L’idea è stata del regista e del drammaturgo; penso si siano orientati in questa direzione perché conoscevano molto bene il mio desiderio di lavorare su Lear. Negli anni avevo fatto degli studi e lavorato sulla pièce, senza tuttavia esiti performativi. È un lavoro che mi ha sempre molto attratto. Quando Roberto [Bacci, ndr] ha pensato di mettere in scena lo spettacolo e mi ha proposto di interpretare il ruolo di Lear sono stata molto contenta.
Non abbiamo scelto di fare un Lear donna, ma di fare interpretare a una donna questo ruolo maschile. Io credo che i personaggi in quanto personaggi non esistano. Sono delle funzioni all’interno di una storia, di una pièce, che portano dei temi… naturalmente ci sono delle indicazioni di carattere psicofisico, di cui io tengo conto, senza voler per questo andare a voler fare l’uomo: io non voglio fare l’uomo.
Per me non si è posto il problema di genere, perché quello che più mi interessa in Lear è questo rapporto col vuoto, cioè la tragedia del vuoto e della gravità, questa forza che domina l’esistenza dell’essere umano. Il rapporto col vuoto per me rimane una domanda aperta a cui non ho ancora trovato risposta, ma si comincia ad aprire qualche finestra a proposito. È un tema a cui tengo molto.

Una sua considerazione sul testo. “Re Lear” è una tragedia che procede per grandi illuminazioni, grandi aperture, squarci…
Sì, procede per gradi di coscienza, prese di consapevolezza, anche se queste arrivano sempre accompagnate da un dolore molto marcato; infatti questa incapacità di vedere che appartiene all’inizio ai due personaggi – Lear e Gloucester – poi si trasforma: uno deve diventare cieco per vedere e l’altro deve attraversare un inferno. Mi colpisce molto quando dice: “L’uomo non è niente più di questo”, perché questa consapevolezza riscatta in un certo senso tutta una presunzione rispetto all’immunità dalla vita…

Un’altra cosa che colpisce, e che in scena è sottolineata con forza dalla scenografia, è l’affresco simbolico, questo manifestarsi di simboli… Lei quali pensa d’incarnare in quanto Lear?
Lear è simbolo della condizione umana, per questo secondo me non ha un genere: riguarda tutte le creature. C’è una cosa che avevamo affrontato all’inizio del lavoro e che si è poi un po’ persa, ruotava attorno alla domanda: “Che cos’è un re?”.
Era saltata fuori questa faccenda del doppio corpo del re: uno immortale, per ciò che rappresenta dal punto di vista del potere, e uno mortale. Lear, senza rendersene conto, abbandona il corpo immortale per ritrovarsi con questo corpo di uomo che non conosce (questo le figlie lo ripetono spesso)… E’ inconsapevole, non sa che cosa è un uomo. Sa cos’è un re in termini di potere, e sa cosa significa avere ed esercitare il potere, non solo in senso negativo. Con il suo gesto si crea un vuoto di potere. Lear fa questo gesto inaspettato e oscuro, ma è oscuro anche per lui, in qualche modo; non sa quali saranno le conseguenze della sua scelta, e non è pronto… perché in fondo nessuno è pronto…

È una riflessione che si adatta alla nostra contemporaneità.
Mi domando se anche noi saremmo pronti ad affrontare un vuoto di potere. Perché il vuoto di potere necessita di una capacità, di una responsabilità individuale, a cui nessuno per me è ancora arrivato. Il tema della responsabilità individuale lo sento fondamentale: avverto questo bisogno, questo richiamo, nella condizione dell’esistenza, e quindi al di là di tutte le recriminazioni del fatto di essere nati o di dover subire o di dover esercitare un potere, che per me poi si equivalgono da un certo punto di vista. Mi chiedo cosa significherebbe essere creature responsabili, come andrebbero le cose se – anche in Lear – questa cosa fosse avvenuta in un clima di responsabilità…

In “Lear” è preponderante la tematica del rapporto tra generazioni. In scena, assieme a lei, c’è sua nipote Maria Bacci Pasello nella parte di Cordelia. Questo rapporto quindi lei lo vive in scena direttamente…
Certo, è molto presente in “Lear”. C’è il tema della vecchiaia proprio in questo senso qui, della distanza e di come le giovani generazioni guardano chi li precede. E in questo rapporto di sguardi c’è qualcosa che, come sempre, è conflittuale.
In teoria una generazione trasmette all’altra, ma io su questa cosa comincio ad avere dei dubbi. Cioè, mi chiedo come si trasmette l’esperienza, il pensiero. Credo sia una bella domanda oggi!
Lear, anche se appartiene ad un’altra cultura e ad un altro tempo storico, solleva una questione che è quella della trasmissione: come si trasmette? Se si trasmette, si tradisce… per poter ricevere allora bisogna tradire… E’ complicato. Questi rapporti sono paradossali, sempre, e così è con Maria. C’è una distanza generazionale, ma al contempo una vicinanza oggettiva.

Come ha lavorato sul personaggio?
Nella messinscena mancano dei passaggi che nel testo originale sono quei gradini che fanno compiere tutto il percorso, e di questo ho tenuto conto. Quando abbiamo cominciato a lavorare ci hanno chiesto che ogni attore portasse una piccola azione che riguardasse il personaggio. Io ho pensato ad un grande rotolo di carta bianca – che poi in scena è diventata la grande mappa che porto sulle spalle – sul quale era scritta una sola parola: “nulla”. Questo in riferimento alla scena della spartizione del regno. Per me rappresentava Lear che porta dentro il nulla: una riflessione sul potere, su cosa è tutto quello che lascia e che è “nulla”. Ho cominciato a lavorare su questo.

Ha escluso ogni forma di enfasi in qualunque momento della rappresentazione.
Questo per me attiene alla questione di cosa è e cosa fa un attore in scena. Non sarei nemmeno capace di lavorare in quel modo… è come se cercassi delle piccole verità personali, alle quali attingo per poter stare lì. Questo tipo di ricerca, per me, con l’enfasi non ha niente a che fare; anzi, addirittura mi sembro troppo enfatica in certi momenti…

Vorrebbe più rigore?
Sì.

Un’ultima domanda: come vede il Re Lear all’interno del corpus dell’opera shakesperiana?
E’ l’opera che amo di più ma è al contempo anche molto strana. C’è qualcosa di oscuro, se penso alle altre sue opere non capisco bene come mai abbia scritto una cosa del genere. “Re Lear” è molto particolare, e forse quello che mi attrae è proprio quel qualcosa di estremamente misterioso. Mi sembra una delle opere più impenetrabili di Shakespeare, e questo mistero mi intriga molto, mi incuriosisce, mi viene voglia di andare a capire, di entrarci dentro. C’è quasi qualcosa di illogico, qualcosa che non sta lì ma da un’altra parte. Verrebbe voglia di poter toccare dov’è questo altrove…

LEAR
di Stefano Geraci, Roberto Bacci
liberamente ispirato a William Shakespeare
regia Roberto Bacci
con Maria Bacci Pasello, Michele Cipriani, Savino Paparella, Silvia Pasello, Francesco Puleo, Caterina Simonelli, Tazio Torrini, Silvia Tufano
assistente alla regia Francesco Puleo
progetto scene e costumi Márcio Medina
musiche originali Ares Tavolazzi
luci Valeria Foti, Stefano Franzoni
realizzazione costumi Fondazione Cerratelli
in collaborazione con il Laboratorio di Costumi e Scene del Teatro della Pergola
realizzazione scene Scenartek
allestimento Leonardo Bonechi
sarta Giulia Romolini
Produzione Fondazione Teatro della Toscana

durata: 2 ore
applausi del pubblico: 2′ 25”

Visto a Pontedera, CSRT Teatro Era, il 3 aprile 2016
Prima nazionale

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