Spoleto56: immersi nella drammaturgia della natura

Quinto episodio del Decalogo di Alleva
Quinto episodio del Decalogo di Alleva
Pierpaolo Lovino e Paolo Gatti, protagonisti del V episodio del Decalogo in scena sabato e domenica (photo: Anna Laviosa)
Tornare a calcare le strade e gli acciottolati dei paesi umbri è, per chi ama questa regione, la conferma di una possibilità che, tornati in città, si dimentica troppo facilmente. 
Qui l’architettura umana ha lo stesso passo del funambolo, quando in equilibrio sottile con la natura riesce ad attraversare, con apparente semplicità, le vaste distanze oltre cui si getta il Ponte delle Torri di Spoleto, a ricordarsi di essere – essa stessa – natura: «Sono salito a Spoleto e sono anche stato sull’acquedotto, che nel tempo stesso è ponte fra una montagna e l’altra. Le dieci arcate che sovrastano a tutta la valle costruite di mattoni, resistono sicure attraverso i secoli, mentre l’acqua scorre perenne da un capo all’altro di Spoleto. […] L’arte architettonica degli antichi è veramente una seconda natura», scriveva Goethe nel suo “Viaggio in Italia”. 
Così è difficile credere che, poche ore prima di scrivere queste righe, stavo correndo lungo uno dei tanti binari della stazione Termini, rinnovando la mia sudata fama d’inseguitore di treni. 
Ad Assisi, Todi, Spoleto e negli altri borghi umbri si sono accese, nel Medioevo, le fiaccole inventive delle laudi, del teatro religioso e devozionale: il Festival dei Due Mondi ha raccolto la loro eredità, ampliandola fino a prospettive oltreoceaniche. 
Accanto agli echi e alle riprese di questa teatralità esplicita e vivente, però, mi ha sempre colpito anche quella silenziosa e potente dei luoghi, la capacità di certi scorci e di certe piazze di essere scenografie di un’identità forte, protettiva, che senz’altro serviva un tempo come arma di distinzione dai Comuni vicini: la vera meraviglia, però, è che poi basta alzare lo sguardo oltre l’ultimo arco scenico, l’ultima cupola o l’ultimo campanile, per riempirsi gli occhi del controcanto dei boschi arrampicati sulle colline. Ciò che forse dovrebbe fare sempre il teatro: conquistare con la drammaturgia un tempo e uno spazio propri, liberi, in cui elaborare etiche ed estetiche; ma allo stesso tempo suggerirne la fragilità, non cedere alla tentazione di dimenticare il fuori, il reale, la natura attorno, facendo sì che anche la più compiuta «pièce bien faite» sia attraversata da una ferita, dal segno muto di tutto ciò che, renitente alla forma, ogni operazione artistica non può fare a meno di lasciar fuori dal suo cerchio. 

Con questi pensieri sono entrato nella maestà verticale della Chiesa di San Salvatore, per assistere alla seconda parte del Decalogo messo in scena da Stefano Alleva, elaborazione drammaturgica del secondo comandamento, “Non nominare il nome di Dio invano”. 
Il regista e gli sceneggiatori hanno già spiegato a KLP il senso della loro operazione, ispirata dall’opera di Kieslowski ma basata su storie di cronaca capaci di farsi esempio della faticosa e conflittuale ricerca di nuovi valori. 
In scena ci sono Paolo Gatti, nel ruolo di un insegnante di piano e seminarista, Diletta Acquaviva, giovane allieva del primo, e Fabio Massimo Amoroso, padre della ragazza. Dev’essere allo stesso tempo emozionante e difficile, per gli attori, agire teatralmente sull’abside di un capolavoro architettonico che ha quasi un millennio e mezzo di storia. 
L’uso dello spazio prevede due piani principali, uno sotto e uno sopra l’altare; alcuni pannelli di vetro opaco aiutano a disegnare, assieme alla descrittività degli oggetti scenici (un tavolo, un pianoforte e qualche sedia), il realismo degli incontri fra l’allieva e il suo maestro di piano. 
Alleva sceglie di raccontare la storia secondo un montaggio cinematografico, giustapponendo scene brevi e segnate da pochi e decisivi scambi di parole; diversamente dal cinema, l’esito è un ritmo lento e riflessivo, le cui pause vengono riempite dalla musica dal vivo dell’orchestra e dagli interventi di danza della performer Micol Maidani, così come dai cromatismi forti delle luci che scolpiscono il transetto, gli archi e i capitelli di San Salvatore. 
I capisaldi della storia sono due «topoi» congiunti in una sola vicenda: le lezioni di musica nascoste dalla figlia ad un genitore arido e troppo protettivo; il seminarista e il suo anelito all’amore divino improvvisamente messo in discussione da quello incarnato per una donna. L’ordinazione da presbitero, scandita da una voce off e dall’evocazione simbolica (in verticale) della prostrazione, è il nodo della narrazione, iato incolmabile tra desiderio e realtà. 
Ma se, come ci ricorda il Vangelo, soltanto chi conosce l’amore può amare Dio, in questa sottrazione tragica si cova anche la possibilità di una sintesi: quella cioè, per tornare a quanto dicevamo prima sul teatro e sulle architetture umbre, della consapevolezza. La possibilità di abbracciare anche ciò che non è, o non può essere. 
E questa possibilità continueremo a stringerla in tasca, a sfiorarne la consistenza indicibile, continuando a cercarla nel tanto teatro che ci attende nei prossimi giorni di festival.
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