Stoc ddò: Sara Bevilacqua e la storia del giovane Michele Fazio, ucciso dalla mafia

Sara Bevilacqua in Stoc ddò (photo: Domenico Summa)
Sara Bevilacqua in Stoc ddò (photo: Domenico Summa)

Sono trascorsi vent’anni dal 12 luglio del 2001, quando Michele Fazio, neppure 16 anni, fu ucciso dalla mafia a Bari vecchia. L’eco mediatica del delitto parve estinguersi rapidamente in quell’estate torrida segnata in Italia dalle violenze contro i manifestanti del G8 a Genova e in America dall’attacco terroristico di Al Qaeda alle Torri Gemelle.

Michele Fazio era un ragazzino dal cuore d’oro. Lavorava come cameriere e sognava di evadere dalla miseria con una vita semplice e onesta. Aveva un sorriso per tutti. Era la gioia di mamma Lella, di papà Pinuccio e dei suoi tre fratelli. Fu ucciso per errore nel centro storico di Bari da un proiettile sparato dalla pistola di un ragazzo poco più grande di lui, nella guerra dei clan che si contendevano il traffico di droga.

Un’accorata Sara Bevilacqua racconta la storia di Michele nel monologo “Stoc ddò” (sto qua), drammaturgia Osvaldo Capraro, produzione Meridiani Perduti, che ha raggiunto il Chiostro di San Domenico a San Vito dei Normanni dopo aver aperto a Novoli il festival I teatri della Cupa.

La scenografia di lenzuoli bianchi stesi ad asciugare non è solo riferimento simbolico alle battaglie contro la mafia: è anche un modo per ripercorrere la quotidianità di Lella, mamma di Michele. È a lei che è dedicato il monologo, ed è lei che Sara Bevilacqua interpreta in una narrazione in prima persona. Ma lo spettacolo è rivolto soprattutto a chi fosse sedotto dalle logiche del malaffare, in primis ai ragazzi che potrebbero cadere nell’inganno dei guadagni facili in una qualunque città soffocata da disoccupazione, precariato ed emigrazione. È poi rivolto alle altre mamme, quelle che di fronte alla mafia chiudono gli occhi, quelle colluse e pavide, che lasciano i figli in balia del crimine e a un destino di galera o di morte. “Stoc ddò” è teatro civile, che esorcizza con ironia amara ogni rigurgito paternalistico, ogni eccesso retorico e soprattutto la lacrima facile.

È una regia essenziale quella di Bevilacqua. Che con i panni stesi asciuga anche il testo, e pulisce la regia di ogni fronzolo finalizzato alla spettacolarizzazione e alla teatralità del dolore. Pochi suoni stridenti, e una colonna sonora muta anche di brani pop, che consentirebbero di orientarsi più agevolmente nel tempo della vicenda. Ma il teatro non è commemorazione e neppure cronaca.

Quella di Michele Fazio è una vicenda senza coordinate spazio-temporali che si adatta a tutte le volte che svendiamo moralità e umanità per inseguire le vie facili al guadagno. La lente di Bevilacqua è focalizzata su mamma Lella. È di scena la sua storia: i suoi sogni di ragazzina vivace e coriacea, il lavoro da operaia, l’amore con Pinuccio, il matrimonio, i sacrifici per pagarsi la casa, i quattro figli venuti uno dopo l’altro, da crescere nell’onestà. E poi la camicia bianca di Michele, che davanti allo specchio domandava: «Mamma, come sto?».

Arriva in scena con un abito scuro a fiori, Lella. È seduta mentre sfoglia istantanee di ricordi. E intanto, negli anni Novanta, arriva la mafia e Bari vecchia si snatura. Iniziano a volare le pallottole. Anche d’estate si tengono chiuse le finestre, e non si esce sul balcone neanche per fumare.
«Basta che non mi tocchino i figli», pensava Lella. Che in scena sta seduta quando parla del suo passato fatto di debolezze, concessioni, compromessi. E si alza in piedi quando invece parla del figlio ammazzato, perché da quel momento scopre dentro un coraggio che neppure sospettava. Lella leva la sua denuncia: da vent’anni il suo cuore ferito non teme più nulla.

Le luci di Paolo Mongelli si fanno più chiare. Il profumo di pulito dei lenzuoli appesi esprime la moralità di Lella. “Stoc ddò”: “sto qua”. Ma il verbo indica la stabilità di una fortezza, l’arroccarsi senza ripiegamenti. Perché i diritti non vanno confusi con i favori. Ed essere Stato significa denunciare il malaffare e svelare la pusillanimità dei criminali.
L’abito nero fiorato a pallini bianchi spiega che anche al dolore c’è via d’uscita: quando si trova il coraggio di parlare; quando la testimonianza si fa ricordo, monito, riflessione.
Il sorriso di Michele che illuminava Bari vecchia scioglie veleni e dolori. Passa da Lella a Sara, e giunge fino a noi.
Bevilacqua non entra nel personaggio di Lella: è pervasa dalla sua persona. Basta che la Lella vera prenda la parola, per riconoscerne il carattere e la personalità apprezzati in scena. Il ritratto di Lella si definisce partendo dalla lingua: stesso dosaggio di dialetto barese e italiano, stesso ritmo, stessa cadenza, stesse pause, stessi accenti. Persino stessi costrutti e anacoluti.
Qualcuno dice che gli spettacoli di narrazione si assomigliano tutti. Qui il valore aggiunto è proprio la cura meticolosa della lingua.
La Lella di Sara Bevilacqua entra nella pelle e vibra di commozione mentre passa messaggi vitali: anzitutto che la mafia vacilla davanti alla fermezza di una madre; poi che il lutto di un figlio ucciso si elabora solo attraverso la testimonianza come ricordo, denuncia e atto d’amore capace di riscattare.

STOC DDO’ – IO STO QUA
Regia Sara Bevilacqua
Con Sara Bevilacqua
Drammaturgia Osvaldo Capraro
Disegno Luci Paolo Mongelli
Organizzazione Daniele Guarini
Produzione Meridiani Perduti

durata: 1 h
applausi del pubblico: 4’

Visto a San Vito dei Normanni, Chiostro dei Domenicani, il 2 agosto 2021
D’Estate a San Vito 2021

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