Un monologo con Francesco Montanari al Piccolo svela le contraddizioni del sistema teatrale, tra l’ambizione dell’attore e le sue frustrazioni
Un cielo ribaltato. Un sipario che si solleva come se volesse volare via, rivelando non solo i trucchi della macchina teatrale, ma anche i retroscena del sistema stesso. Così si apre “Storia di un cinghiale. Qualcosa su Riccardo III”, lo spettacolo scritto e diretto da Gabriel Calderón, in programma al Piccolo Teatro Studio di Milano fino al 6 aprile.
L’impatto visivo della scena è forte. Il lavoro unisce Shakespeare con una riflessione sulla condizione dell’attore nel teatro contemporaneo, sviluppandosi attorno alla figura di Riccardo III, interpretato da Francesco Montanari in una performance vigorosa e sfidante. Il monologo è un vero e proprio tour de force verbale e fisico. Il confine tra il testo e l’autobiografia si fa labile, lasciando il pubblico scosso.
Sul palcoscenico si intrecciano significati complessi. Ambizione, riflessioni sulla condizione dell’attore e una critica al sistema teatrale contemporaneo si mescolano in un insieme denso e dirompente. Con estro e maestria, Montanari incarna la frustrazione di chi ha sempre sognato di interpretare il ruolo di Riccardo III, ma ha dovuto fare i conti con una carriera di ruoli marginali.
La sua performance, intensa sia sul piano fisico che verbale, attraversa una vasta gamma di registri emotivi e stilistici. La sua capacità di entrare e uscire dal personaggio, oscillando tra monologo e autobiografia, è indiscutibile, ma il ritmo forsennato a volte rischia di sovraccaricare lo spettatore.
Il palcoscenico, progettato da Paolo Di Benedetto, è una macchina scenica complessa, simbolo della struttura teatrale stessa. Tra corde, ripiani in legno, scale, sipari e libri, l’intero spazio diventa metafora della precarietà e della fragilità del sistema teatrale, ma anche delle sue velleità. Calderón gioca con il concetto di “teatro nel teatro”. Il protagonista non solo recita, ma anche costruisce, smonta e manipola il proprio destino sul palcoscenico. La scena diventa un luogo di riflessione sul potere e sulla solitudine dell’attore, che tira le fila della propria performance in un mondo che premia le mode, l’individualismo e la competizione. La macchina scenica, tanto sorprendente quanto sgangherata, appare come un elemento farraginoso e affascinante al contempo.
Il lavoro riflette su come il potere, simboleggiato da Riccardo III, si giochi anche nel mondo del teatro, dove gli artisti sono costretti a fare i conti con un sistema che spesso privilegia l’apparenza rispetto alla sostanza. La figura del “cinghiale”, nel titolo, diventa una metafora del desiderio incontrollabile di potere, ma anche della goffaggine e della frustrazione del protagonista. In uno dei momenti più incisivi, l’attore si scaglia contro il sistema delle maestranze teatrali – registi, costumisti, direttori artistici – criticando la superficialità e la mancanza di studio. Il remix di Riccardo III («Il mio regno per uno spettatore intelligente») diventa il grido di chi si trova a fronteggiare la precarietà del mestiere teatrale e la difficoltà di essere valorizzati.
Le luci di Manuel Frenda e i costumi di Gianluca Sbicca contribuiscono a creare un’atmosfera shakespeariana, con giochi di ombre e colori che rinforzano il senso di smarrimento del protagonista. La scenografia, ricca e articolata, è al servizio di una riflessione profonda sull’essenza stessa del teatro. La scelta di rendere visibile la macchina teatrale amplifica il contrasto tra il palcoscenico patinato e la dura realtà che si cela dietro le quinte, suggerendo un mondo di contraddizioni e compromessi che non risparmia nessuno, nemmeno l’artista.
Nonostante la forza simbolica e le intuizioni narrative di Calderón, la prima parte dello spettacolo risulta faticosa da seguire. La densità della scrittura, il ritmo frenetico e l’intensità della performance rischiano di sopraffare lo spettatore, soprattutto chi non è completamente avvezzo alle sottigliezze della tragedia shakespeariana.
L’epilogo, quando Montanari si scaglia contro il sistema teatrale e si allontana dalla macchina scenica, risulta più coinvolgente. L’invettiva contro le convenzioni e le mode del teatro contemporaneo è uno dei momenti migliori dello spettacolo. Calderón fa esplodere la sua critica sociale e culturale, e il tono si fa più ruvido e autentico. Lo spettatore si avvicina al tormento dell’attore, che si trova a fronteggiare una realtà che non corrisponde alle sue aspettative artistiche.
La bellezza dei costumi e delle luci, che ci trasportano nelle atmosfere shakespeariane, non può essere ignorata. Ma, nonostante il fascino della macchina scenica e l’abilità di Montanari, lo spettacolo rischia di naufragare nella propria complessità. Che poi il naufragare sia dolce in questo mare, resta un fatto di gusti e di attraversamenti.
La riflessione metateatrale è potente ma irrisolta. “Storia di un cinghiale” è un’opera audace e provocatoria, che non stimola una riflessione completa sul ruolo del teatro, sull’ambizione e sul potere. La performance di Montanari costituisce il cuore pulsante dell’opera. La scrittura di Calderón travolge lo spettatore, ma soffoca talvolta il fluire naturale della narrazione. Lo spettacolo lascia una sensazione di inquietudine, invitando alla riflessione sulla condizione dell’individuo e sul prezzo che si paga per cercare di realizzarsi, anche nel mondo del teatro. Un’opera comunque che coinvolge e affascina, pur nella fatica di mantenere un equilibrio tra profondità e fruibilità.
Storia di un cinghiale. Qualcosa su Riccardo III
Liberamente ispirato a Riccardo III di William Shakespeare
Scritto e diretto da Gabriel Calderón
Traduzione Teresa Vila
Scene Paolo Di Benedetto
Costumi Gianluca Sbicca
Luci Manuel Frenda
Con Francesco Montanari
Produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa, Carnezzeria
Foto di scena: Masiar Pasquali
durata: 1h 15′
applausi del pubblico: 2′
Visto a Milano, Piccolo Teatro Studio Melato, il 25 marzo 2025