Gli Stranieri di Tarantino: Gianluca Merolli tra lingua e scena

Stranieri (photo: Pino Le Pera)
Stranieri (photo: Pino Le Pera)

Già nel 2008 Ermanna Montanari e Marco Martinelli l’avevano affrontato: ora ci riprova Gianluca Merolli, nel doppio ruolo di attore e regista, al Piccolo Eliseo, per l’ormai tradizionale prologo di stagione, due mesi di attività che fanno da apripista per la stagione vera e propria.

La trama di “Stranieri” del ‘monstrum’ drammaturgico Antonio Tarantino racconta di un padre, ex venditore truffaldino e arricchito, che si barrica in casa, accoccolato nella propria grettezza e nel rifiuto del mondo esterno nella sua totalità, in attesa, forse, della morte.
Bussano alla sua porta due personaggi, una donna e un giovane uomo, che insistentemente chiedono di entrare. I due binari, chi sta dentro e chi vuole entrare, corrono lungamente paralleli, finché lentamente convergono, fino a incontrarsi nel finale, e gli “stranieri” (non quelli che il protagonista teme, gli immigrati minacciosi, ma le due ‘apparizioni’) gli entrano in casa, e se lo portano via, come angeli della morte.

La regia di Merolli costruisce attorno ad un autorevole Francesco Biscione il ruolo del protagonista, modulando la settentrionalità del protagonista tarantiniano con una sensibile coloritura da immigrato interno partenopeo, ingrezzitosi nella benestante, ingenerosa, visigota Altitalia. Gli altri due personaggi vivono invece la scena sulla base di una costante complicità, fatta di piccoli gesti quotidiani e rituali ripetuti, nell’ombra diffusa di una missione misteriosa.

Uno dei punti di forza del testo è, per così dire, la posizione nella quale ha sede, e dalla quale ci parla, cioè quel suo essere linguisticamente in un luogo intermedio tra la quotidianità e l’esemplarità. Non si tratta di contenuti (tutti i contenuti sono assolutamente tangibili, non c’è idealizzazione, la banalità di molti argomenti portati in scena dai protagonisti è persino disarmante): si tratta di registro, d’impasto, è un fatto di lingua, appunto. I monologhi dei quali è composto, in sostanza, “Stranieri” richiedono un settaggio di ascolto che unisca il continuo riferimento alla realtà corporea, tangibile, del parlato e insieme l’attitudine alla ricezione di un dettato che, attraverso il continuo riferimento a un corpo che dice, è tematico esso stesso, e costruisce, proprio in quella bassezza, un’esemplarità mirabile: non classica, gaddiana piuttosto, eppur statuaria. Soggetta a continui scarti eppure non scivolosa, aggrappata al suo luogo in scena.

Il lavoro è posto da Merolli in uno spazio scenico rigidamente frontale, disegnato attorno a una poltrona, a sua volta all’interno di un quadrato delimitato da coperte termiche di primo soccorso (del tipo catarifrangente, da sbarco d’emergenza, uno dei molti accenni alla tematica della migrazione e della non-accoglienza): è qui che il protagonista ha il suo mondo, un’enciclopedia scientifica in trenta volumi, quasi un’assicurazione, una boccia con pesce rosso, suo unico muto interlocutore, condannato ad assorbirne gli sproloqui, e un telefono reso inservibile. Dall’alto, in due occasioni, pioveranno due sottili pareti d’acqua.
All’esterno di questo quadrato invalicabile (almeno fino a un certo punto) rimane uno spazio neutro, quasi non scenografico, ricavato come su un pianerottolo, un vestibolo pseudodantesco, dove agiscono gli altri due attori. Ancora più all’esterno, in platea addirittura, sta un pianoforte verticale denudato dei suoi pannelli, al quale siede Luca Longobardi, esecutore delle musiche.

A una conformazione scenica così essenziale corrisponde un lavoro sugli attori che non affronta in modo neutro il testo, ma che sembra provare la strada di stirarlo più verso la semplicità della comunicativa che verso la letterarietà esemplare: alla coppia madre figlio sono distribuite frequenti controscene, e zeppe, che riempiono e “arricchiscono” i monologhi, quasi per assicurarsi dal rischio di squilibrio in quello spazio intermedio e così delicato; al padre è consigliata invece una resa più piana, non certo quotidiana, ma comunque più vicina a un realismo carnascialesco che a un’invenzione sospesa e altra.

La scelta registica è discutibile, ma del tutto legittima. Con questa “assicurazione” sulla resa, tutti e tre gli attori governano senza tentennamenti spazi e durate; il testo si dispiega in scena con una linea evidente e ben tracciata, che con coerenza porta lo spettacolo fino alla conclusione.
Grandi applausi sono riservati alle prove d’attore, prime fra tutte quelle di Biscione, sottoposto a un vero tour de force, e di Paola Sambo, primadonna che per tanti versi ricorda quelle donne pirandelliane dalle coiffure accuratamente sconvolte e dalle asciutte lame di verità nelle battute, e infine allo stesso Merolli, autore anche di una bella prova di canto.

Unica vera riserva può essere espressa nei confronti dell’uso un po’ disinvolto di qualcosa che potremmo chiamare ‘emozione da baule’, con riferimento a quelle arie di sicuro effetto che i cantanti settecenteschi portavano con sé e riuscivano a inserire in qualunque opera gli toccasse eseguire, per ingrossare il successo. Qui Merolli adopera alcuni luoghi comuni della scena ‘emotiva’ (la canzone sentimentale, il cappello a cilindro in testa al pianista, la pioggia in scena, con ombrelli, la valigia di cartone, il cambio d’abito, da quotidiano a elegante, per un ultimo ballo al chiaro di luna…) che pur conquistandosi il loro effetto agli occhi, mostrano la corda con la quale sono, peraltro sapientemente, assicurati al corpo del lavoro.

STRANIERI
di Antonio Tarantino
Regia: Gianluca Merolli
Con: Francesco Biscione, Paola Sambo, Gianluca Merolli
Produttore: Andrea Schiavo, Teatro di Arsoli

Durata: 1h 20’
Applausi del pubblico: 3’

Visto a Roma, Piccolo Eliseo, il 2 novembre 2019

0 replies on “Gli Stranieri di Tarantino: Gianluca Merolli tra lingua e scena”
Leave a comment

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *