Teatri di Vetro 2024: “quello che resta” brucia forte nella ricerca

Alessandra Cristiani in Lingua (ph: Lorenzo Crovetto)
Alessandra Cristiani in Lingua (ph: Lorenzo Crovetto)

Fino al 21 dicembre tra Teatro India, Teatro del Lido di Ostia e Teatro Biblioteca Quarticciolo, la 18^ edizione del festival delle arti sceniche contemporanee diretto da Roberta Nicolai 

È con desiderio, ma anche con paura, che si aspetta il diciottesimo compleanno di Teatri di Vetro, segnatamente della sezione Oscillazioni, quella più teatrale-danzata-performativa. Non con curiosità: la curiosità può essere bensì pungente, ma è qualcosa di epidermico, mentre il piccolo universo compresso (in una settimana) che occuperà il Teatro India, l’insieme di galassie di ricerca che è anche in sé il risultato dell’instancabile lavorio curatoriale di Roberta Nicolai, ha un carattere viscerale, non ti lascia piluccare leggero le pietanze imbandite.

E quindi lunedì 16 dicembre, mentre in un altro universo, certamente parallelo, si festeggeranno i vincitori degli Ubu, noi ci caleremo nella fossa umida e gelida e talvolta allagata di bruma (mai come in quei giorni lì) dei capannoni dell’India, nella settimana che chiude l’anno teatrale, insieme alle offerte stagionali del teatro natalizio e prima di un gennaio che tornerà a illuderci, entrando e uscendo da quelle sale, ora sprofondati nel calore delle poltrone, ora nuovamente nella guazza, ora appesi a un arido trancio di pizza del baretto o a una sigaretta, ora in fila nei lunghi corridoi.

Desiderio e paura. Desiderio, perché da diciott’anni la rassegna romana porta in questa città quelle galassie laterali, dà nutrimento, offrendo loro spazio e sguardi, a percorsi personali e idiosincratici, difficilmente pensabili altrove tutti insieme.
Torneremo a incontrare un’artista silenziosa e implacabile come Alessandra Cristiani, “Trilogia_la questione del linguaggio corporeo e l’arte di A. Mendieta, C. Cahun, S.Moon”, la cui pudica nudità, nutrita della lezione del butō di Masaki Iwana, (perché sempre incomunicabile per estrema interiorità di parola risulta, a chi scrive, il suo lavoro) accompagna da tempo le stagioni di Teatri di Vetro.
Altra sponda storica, Paola Bianchi, aggiunge un nuovo tassello “Corpi reclusi” al suo ormai pluriennale progetto “ELP” sul rapporto tra voce e corpo – o meglio sarebbe dire sull’incarnazione della voce.
Se Cristiani aprirà Oscillazioni, Bianchi ne sarà il suggello, con i due lavori “VOICE OVER” e “[…] KZ”, che vedranno rispettivamente in scena Barbara Carulli (già travolgente nell’indimenticabile “Other otherness”, sempre su quei palchi) insieme ad altre danzatrici, e la stessa Bianchi. Proprio il lavoro di Bianchi era stato al centro di uno dei primi tre film “La parte maledetta” di Clemente Tafuri e David Beronio di Teatro Akropolis, insieme alle figure di Carlo Sini e Massimiliano Civica: ora Tafuri presenta il quarto approdo, dedicato a Carmelo Bene.

Tanto è trattenuta la comunicazione nel lavoro delle due performer nominate, o meglio si concede in forme spaesanti e sfidanti, quanto invece si dà generosamente, nel linguaggio schietto di Carlo Massari, anche lui corpo (luminoso) da tempo presente nell’universo-TdV, e che via via si dimostra sempre più interessato a questioni politiche, etiche, sociali esplicite (tre piccoli penetranti manifesti erano i tre pannelli della sua trilogia “Metamorphosis”: “Blatta”, “Larva” e “Sapiens”). In questa edizione lavorerà attorno a un’altra metamorfosi, quella kafkiana, con “Strangers in the night”, elaborato insieme a Jos Baker e Linus Jansner.

L’insetto sarà protagonista anche di un ritorno a Teatri di Vetro, quello di Silvia Gribaudi (l’ultima volta fu nel 2020, ma vi aveva lavorato anche per il suo “Mon Jour” nel 2019), che per l’occasione porterà per la prima volta “in Rome”, insieme a Tereza Ondrovà, “Insectum”, la performance pensata durante la pandemia e che prova ad assumere quel punto di vista umile e formicolante. E poi ancora molti altri artisti e artiste il cui percorso già si è incontrato con Teatri di Vetro (Ilenia Romano e Lucia Guarino, insieme in passato in “Somewhere”, ora separate, rispettivamente in “Pinocchi-io” e “Strings”; il teatro di racconto con ospiti e biografie di Bartolini/Baronio, quest’anno attorno alla poesia e alla figura di Forugh Farrokhzad; Fabritia D’Intino e Federico Scettri con “Medusa”; Operabianco con il nuovo “Tricksters” in prima nazionale, il duo Dehors/Audela con un nuovo studio…) e altri che vi approdano per la prima volta, come Giselda Ranieri, i napoletani TeatrInGestAzione, Compagnie Émile Saar, Elisabetta e Gennaro Andrea Lauro.

Desiderio e paura: paura perché nonostante i molti ritorni e nonostante quella che può sembrare un’etichetta, “ricerca”, Teatri di Vetro non è mai un luogo consolatorio. Pur andando con amici e pur riconoscendo voci e segni maturati o ribattuti, non si può non temere lo scuotimento della poltrona, la richiesta imperiosa di uno sguardo attivo. Impossibile calare in quella conca a cuore troppo leggero: a Teatri di Vetro si può perdere la calma, sentirsi ignorato dalla scena; si può dover ingaggiare una lotta per la propria immunità di fronte al terremoto o attendere con spericolatezza gli effetti del sisma.
Un’unica serata può strapazzare lo spettatore, dilaniato tra posture diverse, tra ritmi e densità inconciliabili come quelle dell’olio e dell’acqua in un bicchiere: l’intero corpo di chi guarda è sottoposto a una suite di danza, con cadenze, tensioni, distensioni, soste, accelerazioni, traumi.

Roberta Nicolai, nell’introduzione al catalogo di quest’anno, come sempre opera a sua volta non meramente illustrativa, ma tentativo di generare un’ulteriore spinta di espansione a quell’universo, insiste sulla questione della mancanza, un’idea di scena che non si sostituisce alla vita, ma ne raccoglie gli impalpabili residui, le emanazioni tutt’altro che trascurabili, che altrimenti andrebbero perdute. E non è poco.
Così Nicolai, nell’editoriale di apertura: “Sì, è sicuro quella festa c’è stata. Ma ora è finita. Della festa ci resta la parte che manca”.
Alle elementari la maestra ci raccontava (ricordo bene?) che a misurare il peso del cerino prima e dopo la combustione, c’è sempre qualche frazione di frazione di milligrammo che manca al conto: è l’energia, la fiamma, il calore, infinitesimale ma bruciante.

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