Inizia con questi propositi il Teatro dei Luoghi Fest, rassegna settembrina a cura dei Cantieri Teatrali Koreja, teatro stabile d’innovazione nel Salento, che ha scelto di colonizzare Borgo Pace, quartiere periferico e sede della compagnia, con interventi d’arte urbana, teatro di strada e fantasie di guitti italiani e internazionali, tutti coinvolti in un’opera di riqualificazione cittadina che, in due tranche che si sono concluse domenica 30 settembre, ha trascinato su un variegato palcoscenico diffuso anche gli abitanti del quartiere.
L’intero borgo si è mutato in scenografia per la performance del Teatro Potlach, compagnia sperimentale di Fara Sabina (Rieti), che ha preso per mano la città e ha imbastito un rosario di “Città Invisibili”, pantomima ispirata al libro di Italo Calvino.
La performance itinerante principia dalla parrocchia di Santa Maria della Pace e si snoda lungo le strade, insinuandosi nelle vecchie botteghe di alimentari, raccontando le vite dei leccesi di una volta, dicerie che scivolano da un davanzale all’altro e si fanno inedito teatro di strada.
Il percorso dura circa mezz’ora, e s’insinua nei salotti buoni, dove gli avi sorridono compiaciuti dalle cornici delle foto, nelle palestre dove è in corso una lezione di danza, trattiene il fiato in bilico su un filo e sugli archi di un violino, s’inebria del profumo delle viti che ammiccano dai pergolati, sfogliando le pagine di un diario urbano in un insolito hic et nunc teatrale, ogni giorno differente, dove la città si scopre sconosciuta anche agli autoctoni.
Non è un caso la scelta del quartiere, per una rassegna che vuole scrollarsi di dosso le colate di barocco del centro storico e farsi laboratorio del teatro sperimentale. Da qui il debutto, con “La visita della vecchia signora”, dal testo di Dürrenmatt, rielaborato in chiave contemporanea dai ragazzi del laboratorio “Pratica in cerca di teoria” dei Cantieri Koreja.
Da un chiaroscuro quasi caravaggesco, emerge una panchina e un manipolo di smorfie, ghigni isterici, menti tremolanti, occhi impauriti, sineddoche di un paesello senza coordinate, sprofondato nella crisi più nera, quella che genera abiezione, vizietti infimi e meschinità. Una pochezza d’animo, causa e insieme conseguenza della desolante latitudine geografica, tratteggiata con scherzi di ombre, caricature di voci e animata dai bravissimi attori che, più che personaggi, sono ‘tipi’, maschere da commedia dell’arte che narrano, magistralmente, la sempiterna storia della provincia cronica e delle sue indulgenze.
Non c’è mezza sala, invece, per Daria Deflorian e Antonio Tagliarini, il duo di base a Roma che passa dall’allestimento della scenografia a un inizio in medias res con “Rewind”, un esordio in punta di piedi come le ballerine di “Cafè Müller”, storica coreografia di Pina Bausch del 1978, musa e fil rouge dello spettacolo. Un clic e parte il balletto. E insieme il commento dei due attori che, sulle suggestioni delle movenze eteree della Bausch, si abbandonano a ricordi personali e indugiano su memorie e nostalgie, un’autobiografia fatta di frammenti, flashback e scaramucce.
La platea ha quasi l’impressione di origliare dall’altra parte di una parete. Purtroppo. Non si vedono i passi di danza (presenti, peraltro, in versione integrale su Youtube) e si è costretti a limitarsi alla sola immaginazione per seguire, difficilmente, il filo dello spettacolo, costellato da critiche poco tecniche e aneddoti alla fine un po’ noiosi.
Le sedie, elemento principale della scenografia del Café della Bausch, si muovono fragorose, ma stentano a riprodurre l’atmosfera fumosa dell’oscuro “caffè della memoria” originale e le coreografie di piedi di legno e scarpe squillanti orchestrate dalla Bausch, che resta solo uno splendido sfondo, insieme alla conturbante colonna sonora, composta da Henri Purcell.
Follia. Dalla scenografia post-industriale, a tinte noir, al primo guizzo dello sguardo del principe danese. Si chiama Drama Theatre la compagnia macedone che, sul palcoscenico dei Koreja, ha sventrato l’Hamlet di Shakespeare e ne ha fatto un’inquietante fantasmagoria post-moderna di suoni, suggestioni e metafore figurative, firmata da Dejan Projkovski, al suo debutto nazionale a Lecce.
Il sipario si alza su quattro corpi nudi che si agitano sotto vetro, avvinghiati a un intrico di tubi di metallo e gabbie. Attori in smoking e occhiali neri. Grugni da gangster, boria e spavalderia da sbruffoni contemporanei. Shakespeare che, declamato in macedone, si fa stentoreo e implacabile. E, su tutti, la pazzia lucida di Amleto che, ormai notoriamente incapace di scegliere tra “essere o non essere”, cerca disperatamente una risposta al “come essere”, tra la bulimia di suoni, immagini e informazioni del progresso globale, messo completamente a tacere dal set metallico e spartano, gli abbracci languidi di Ofelia e quelli lascivi della regina, che peraltro si abbandona in un amplesso in scena.
A metà tra Matrix e Twin Peaks, l’Hamlet di Projkovski rifugge dalle tentazioni della critica di farne una mera metafora delle contraddizioni della terra slava. La stessa Ofelia, in un’intervista, dichiara che Hamlet “is too big to put this daily political stuff in it”. La politica resta fuori, si sbriciola come la sabbia tra le dita di Amleto, tra i denti di Rosencratz e Guildestern, e l’eterna dicotomia tra essere e non essere si riduce a un conflitto a fuoco con la propria solitudine, dove, almeno per il principe danese, spegnersi sembra l’unica via d’uscita.