Al Festival Opera Prima una versione aggiornata di quello che è diventato un classico, ma sempre attuale, della compagnia guidata da Massimo Munaro
In scena i cinque sensi, i quattro elementi e il sacro furore dionisiaco. Oltre la scena, l’attenzione alle persone: i cittadini, il pubblico, le compagnie invitate, gli operatori. Una cura maniacale dei dettagli. Questo è il Teatro del Lemming. E questo è Opera Prima. Che giunge alla maturità come un alunno dal percorso tortuoso, ma per vicende slegate dalle sue capacità e dalla sua volontà. Diciotto edizioni per un festival nato negli anni Novanta, fermato troppe volte da un supporto altalenante delle istituzioni. E da finanziamenti carenti, assenti, a singhiozzo.
Il Lemming, compagnia fondata nel 1987 da Massimo Munaro, ha sempre rimediato stringendo i denti. È sempre ripartito affrontando le difficoltà come una sfida. Facendo guscio. Affinando la propria identità. Misurando le spese. Con un lavoro meticoloso e ritmi sostenuti. Contando sull’apporto di volontari che si riconoscono nel suo stile e nella sua autenticità. Ricostruendo quando c’era da ricostruire. Per rilanciare in termini di qualità.
Rovigo, Opera Prima: aria di festa ed ebbrezza in questo festival che torna ad aprire l’estate, dopo averla chiusa negli ultimi anni. Entusiasmo e stanchezza per gli attori trasformati in facchini, tecnici, montatori, bigliettai, organizzatori, comunicatori. Testa, gambe, cuore. Si guarda l’orologio non per misurare il lavoro, ma per stare nei tempi. Si dorme quasi niente. S’improvvisa il pranzo all’ombra di un albero, mettendo insieme le seggiole e i tavolini di plastica di una pizzeria sotto la maggiore delle due torri simbolo della città. Ci si divide il pane, i compiti, i problemi. Come i soprattitoli in italiano per uno spettacolo nato in lingua tedesca, messo in scena in greco e tradotto in inglese. Ci s’incoraggia e sostiene. Le braccia del Lemming si alzano all’unisono e sorreggono il festival, come Atlante sorreggeva il cielo. Ogni attore trasformato in tecnico con il suo compito, con un ruolo che nasce dagli studi, dall’esperienza o dall’improvvisazione.
Sei a tal punto abituato a vederli galoppare, a incrociarli in ogni angolo della città in cui è disseminato il festival, che ti fa strano vederli in scena, evocati dalle luci nel buio della sala, in una prova corale che cresce, decolla e toglie il respiro.
È di scena “Amleto”, opera fondante la cultura moderna, mito che inaugura il XVII secolo, e al pari dei capolavori greci si adatta magnificamente alla nostra epoca resa asfittica da guerra, pandemia e cambiamenti climatici.
È di scena il Lemming. Un “Amleto” senza Amleto e con pochissima Ofelia. Ad avviarlo, in un buio palpabile, da pittura secentesca, il pianto di Fiorella Tommasini, Pizia invasata, megera scarmigliata che mette a soqquadro la platea.
I personaggi si stagliano nella profondità di uno spazio e di un tempo condiviso con gli spettatori. Sembra una risalita dagli Inferi. Dalle tenebre si stagliano creature demoniache scolpite da un raggio rarefatto. Le parole degli attori sono biascicate. Le loro bocche eruttano un impasto di saliva e sangue.
Il tempo è inganno scandito da un metronomo, e sembra una bomba a orologeria. Le attrici (oltre a Tommasini, Chiara Elisa Rossini, Diana Ferrantini, Katia Raguso, Marina Carluccio, Chiara Ferronato) sono creature dell’Ade in preda al delirio. Gli attori Alessio Papa e Alessandro Sanmartin sono centauri pervasi dalla follia. Tutti invasati, invasi dal teatro, spettri di un mondo bifronte che fonde passato e presente. Acqua, aria e fuoco. Una terra evocata: braccia intente a scavare una fossa. Una carne con la notte, una carne con la morte.
Il problema di Amleto che Munaro mette in scena si chiama lacerazione. È il dissidio del teatro tra sogno e realtà, forma e rappresentazione, verità e bugia. Amleto tra padre e madre, il codice della regola infranta, quello della cura disattesa.
Tutto è contaminazione, reticolo, malattia. È il morbo dell’attore proteso nei flussi prometeici, nel dimorfismo, nello slancio sempre insufficiente verso la metamorfosi.
“Persona”, cioè “maschera”. Il fuoco delle candele, a illuminare un sogno cadente. Un foglio bruciato, come la vita che si consuma nello sforzo indomito di creare. L’“Amleto” del Lemming non è uno spettacolo datato perché continua a parlare contemporaneo. Non è storia, ma la radice della nostra identità. È superamento della memoria e della narrazione. Entriamo nelle stanze di Amleto. Le abitiamo. Ne fuggiamo con un senso di vertigine. Torniamo a ripopolarle: non possiamo eluderle, non riusciamo a farne a meno.
“Amleto” del Lemming è un cesello di musiche, luci e prova d’attore. Si sommano vari linguaggi. Proliferano e si moltiplicano i piani interpretativi. Ne siamo accerchiati, pervasi, modificati. Trafitti da quegli sguardi che ci entrano nelle viscere. Interrogati, percossi, esangui.
Divorati dai meccanismi dello spettacolo, ne diventiamo parte. Simulacri purificati dall’acqua e consumati dal fuoco, siamo spiazzati dal monologo “Essere o non essere”. Che smette di essere nodo incerto e (per antifrasi) risolutivo del dramma, per diventare piano lirico: dissolvenza verso un silenzio che non smette di gridare.
AMLETO
con: Fiorella Tommasini, Chiara Elisa Rossini, Alessio Papa, Diana Ferrantini, Alessandro Sanmartin, Katia Raguso, Marina Carluccio, Chiara Ferronato
drammaturgia, musica e regia: Massimo Munaro
durata: 50′
Visto a Rovigo, Festival Opera Prima, il 16 giugno 2022