Teatro Due: la cognizione del dolore di questa estate romana

Marco Lucchesi
Marco Lucchesi
Marco Lucchesi

C’è qualcosa, in ciò che sta accadendo in questi giorni a Roma – la chiusura sistematica di alcuni dei presidi della cultura, il taglio dei finanziamenti, l’estate romana, il cinema e la musica, la paralisi dei trasporti –, che ricorda quella specie di anti-provvidenza manzoniana che nei romanzi incompleti di Gadda “invece di dipanare gli imbrogli li complica sempre di più sino a rompere il filo narrativo e disarticolare qualsiasi ricerca di senso”.

Me ne rendo conto tornando a casa dal Teatro Due un lunedì sera, nella stanchezza senza soccorso di una Roma che a un tratto mi appare la vecchia madre morente delle ultime pagine del romanzo incompleto di Gadda, quella madre che se morirà non lo sapremo mai.

Mentre aspetto il treno di una metropolitana al collasso, continuo a pensare all’ultima risposta di Marco Lucchesi, direttore del Teatro Due di Roma bocciato dal Mibact e privato così del finanziamento che gli ha permesso in questi anni di fare delle scelte e di resistere.

Qual è, oggi, il dolore di Marco Lucchesi?
Sentirsi traditi dallo Stato. È come quando sai che non devi fidarti di qualcuno, ma tu non solo ti fidi, rilanci, e poi immancabilmente vieni tradito. In questo 2015, nonostante non sapessimo in quale misura il taglio che tutti temevano avrebbe colpito i piccoli teatri – certo nessuno immaginava con queste dimensioni -, abbiamo continuato ad investire, usando ciò che in trent’anni di attività avevamo costruito. Ora ci dicono che non riceveremo niente.
Il dolore più grande è quello umano, per il progetto e per le persone che come me continuano a lavorarci.

Nel cortile del Teatro Due, dove ho incontrato Marco Lucchesi e Angela Telesca dell’ufficio stampa, lo spazio è stato allestito per ospitare le residenze. A un tavolo a fianco a noi una compagnia porta avanti il suo lavoro. Marco Lucchesi è ospitale, a tratti tranquillo nella cognizione di ciò che lo aspetta; la sua preoccupazione non è quella personale di un ‘imprenditore’ frustrato nel fallimento del suo rischio di impresa.
La sua è una preoccupazione sociale e culturale; è narrativo nel suo rispondere alle domande, è cosciente del fatto che dar valore ai giovani non vuol dire isolarli in un’etichetta ma effettuare quel passaggio generazionale che consente di trasmettere la ricchezza, tutta.

Dopo l’intervista con Mimmo Sorrentino il Teatro Due è di nuovo per me luogo di trasmissione di questa ricchezza, mentre il direttore artistico ripercorre gli ultimi trent’anni dalla prima volta che entrò in quell’ex cinema parrocchiale del complesso monumentale della Basilica di S. Andrea delle Fratte, e in quel cortile utilizzato come parcheggio per le macchine.
Poi, l’idea di trasformarlo in polo permanente di promozione, formazione e ospitalità della drammaturgia contemporanea: il Teatro Due. Una sala che, dal 1985, ha ospitato e prodotto artisti che vanno da Alda Merini ad Annibale Ruccello, da Ermanna Montanari a Maddalena Crippa, e che oggi non è stata riconosciuta come entità produttiva ai fini dell’assegnazione dei contributi FUS, mentre dal selciato del cortile sembrano riaffiorare minacciose le strisce bianche del parcheggio sotto i piedi dei nuovi attori.

Alla fine del 2014 avevi definito il solco che separa la Pubblica Amministrazione dal mondo produttivo come un ‘baratro travestito da ponte’. Oggi che il travestimento non c’è più, che faccia ha quel baratro?
Il provvedimento in questione era stato annunciato come qualcosa di positivo: triennalità, sostegno ai giovani, una semplificazione della classificazione dei teatri. Il problema è che così non è; la triennalità è una precarietà che si rinnova annualmente, i giovani saranno inseriti in una burocrazia della quale pagheranno pegno, e il criterio di assegnazione dei fondi si basa sui numeri, mentre invece dovrebbe basarsi sulle funzioni di un teatro. Cosa fa effettivamente un teatro?
Nel pomeriggio sono stato dal ministro a portare la rassegna stampa di quest’anno per dire: “Ecco cosa state chiudendo”, e al momento non ho ricevuto nessuna risposta.

Con la rassegna ‘A Roma! A Roma!’ avete risposto attivamente alla provocazione delle compagnie non romane sull’inaccessibilità della capitale. Credi che negli anni passati i teatri romani abbiano abusato della loro posizione centrale consumando risorse e rimanendo, oggi, doppiamente penalizzati vista la condizione nella quale versa anche il Comune?
Sono contento di rispondere a questa domanda. No. I teatri romani che negli anni hanno beneficiato di fondi, parlando di centri di produzione delle dimensioni del Teatro Due, sono tre o quattro. Tra questi c’è il nostro teatro, che a suo tempo ha deciso di diventare teatro pubblico con gli oneri e gli onori del caso. Il Teatro Due riceveva un contributo relativo tra i più alti d’Italia, e lo scorso anno siamo stati ‘lodati’ come eccezione per il lavoro di promozione svolto dalla stessa classe che quest’anno ci nega il finanziamento. E’ questo che non riesco a capire. Vorrei che il Ministero fosse chiaro, preferirei che ci dicessero: ci eravamo sbagliati, il Teatro Due non fa un’attività per la quale è degno di ricevere dei fondi, anziché utilizzare un algoritmo.

È davvero impensabile e insostenibile un teatro fuori dal finanziamento pubblico?
Se devo rispondere di getto, sì. Lo è, se si vogliono fare delle scelte precise sul tipo di direzione artistica del teatro. A Roma a maggior ragione, essendo una città priva di quel civismo culturale che si può trovare in altre città, come ad esempio a Milano.
A Roma manca una cultura di classe, manca il ‘vanto’ di voler essere una capitale culturale, e mancano perfino autori che riescano a raccontarla. Senza dover arrivare all’Ottocento, solitamente chi ha raccontato Roma veniva da fuori, basti pensare a Fellini, Pasolini

…E Sorrentino in ultimo. Dici che Roma fa difficoltà a raccontarsi. Nonostante tutto questo la sua offerta teatrale, seppur manchevole, ha continuato a vivere capillare nel sottobosco. Il problema non è forse un’esagerata “piccola offerta”, a volte di bassa qualità, che disaffeziona un pubblico non formato allontanandolo definitivamente?
Credo che la moltiplicazione degli spazi e delle proposte sia un falso problema. Il problema è la mancanza di chiarezza nella proposta, manca una infrastruttura orale della promozione della città; concentrare in pochi teatri e spazi l’offerta non significa concentrare la qualità, si può concentrare anche la mancanza di qualità. Io sono per un proliferare di spazi, dove ognuno di questi possa promuovere la sua specifica realtà, e per una città che promuova la propria cultura. Questo a Roma non c’è.

Ma i soldi sono finiti davvero?
I soldi non sono finiti. La spesa del finanziamento di quest’anno è pari a quella dello scorso anno.

Perché allora spingere i piccoli teatri di ricerca fuori dal FUS?
Questa è una domanda che speriamo si ponga la classe dirigente. Probabilmente per un’ignoranza di fondo, per un’ignoranza della proposta che questi teatri continuano a portare avanti, e per la manovra di commercializzazione globale che sta colpendo anche il teatro: un prodotto commerciale va finanziato se questi soldi tornano poi indietro in iva e tasse, quindi non vanno dispersi in teatro di ricerca, che ben poco ha a che fare con i numeri.

Come si andrà avanti domani? Quali sono le idee e i progetti?
Stiamo continuando a lavorare, sperando fortemente in uno spiraglio di buon senso da chi questo spazio può salvarlo. Le alternative sono la chiusura, oppure il compromesso di resistere penalizzando la direzione artistica e affittando la sala. Un’altra idea che stiamo vagliando è la possibilità di cordate sul territorio nazionale, rendendo il Teatro Due avamposto romano di collaborazione con altre realtà; un’ipotesi di co-gestione provvisoria, che non sia un unirsi per mettere assieme i propri numeri ma creare un’unione che abbia in sé un valore aggiunto. Questa è l’unica possibilità di ricchezza che vedo.

Sulla banchina il treno della metropolitana è finalmente arrivato, carico di gente. Guardo i turisti, guardo i romani, gli stranieri. Vado dal capotreno a chiedere invano quando tutto questo finirà. “Vai a chiederlo a chi negli uffici gestisce e continua a mangiare!”.
Penso di nuovo alla madre morente nelle ultime righe di Gadda. Se morirà non lo sapremo mai. Gadda ci dice solo che ciò che accade dopo, è che viene l’alba.

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  1. says: Marco Lucchesi

    Colgo l’invito della Redazione di KLP ed in particolare ringrazio Daniela Arcudi che mi offre una ulteriore possibilità di chiarire la mia posizione personale in merito alle vicende per le quali è stato sollecitato un approfondimento.
    Senza entrare nei particolare dei singoli episodi che negli ultimi mesi sono stati riportati dalla stampa capitolina in modo strumentale nei miei confronti, vi è solo un dato oggettivo ed incontrovertibile: nella vicenda “Mafia Capitale” non solo non sono indagato come già evidenziato ma non rivesto neppure la qualifica di persona informata sui fatti a dimostrazione, qualora ve ne fosse ancora bisogno, che dalle indagini svolte dalla Procura di Roma è emersa la mia totale estraneità (sia come indagato sia come conoscitore dei fatti) agli episodi delittuosi che sono oggetto di contestazione

  2. says: Klp

    Una delle peculiarità del web e dell’informazione online sono le relazioni che si possono creare con i propri lettori attraverso commenti e social network: è senza ombra di dubbio il rapporto diretto col lettore, la sua viva partecipazione, in una relazione che in taluni casi raggiunge davvero lo scambio, una delle prospettive più stimolanti del web. Soprattutto quando va a sollevare debolezze o quesiti non risolti. Soprattutto quando va a stimolare ulteriori riflessioni.
    In questo caso ci pare quindi doveroso, vista l’importanza dei riferimenti citati (Mafia Capitale…), un ulteriore approfondimento dell’argomento dello stesso Marco Lucchesi, tirato in ballo da più parti, perché è evidente che la natura dei fatti lo imponga.

  3. says: Dario Aggioli

    Io una domandina su Mafia Capitale e le intercettazioni che lo riguardano gliela avrei fatta.
    Come gli avrei fatto una domandina su come mai, un teatro così piccolo ha avuto sempre dei finanziamenti così alti (sempre il primo o il secondo a Roma, pari a quattro volte il teatro dell’Orologio).
    Altra domanda relativa a quella precedente è anche come mai molti teatri si sono visti togliere il finanziamento e hanno trovato altre soluzioni o non ci facevano affidamento, mentre il Teatro Due invece sì, che pubblico aveva il Teatro Due?

    Comunque quella su Mafia Capitale avrebbe avuto più senso di tutte…