L’ultima riflessione che dedichiamo alla 25^ edizione del Fit di Lugano, terminata il 9 ottobre e di cui abbiamo parlato nelle scorse settimane, attraversa le atmosfere generate dagli estoni Theatre No99 con “El Dorado: The Clowns’ Raid of Destruction”, e da “Acceso”, testo del cileno Pablo Larrain per l’interpretazione di Roberto Farìas.
Seppur di diversa provenienza geografica e lontani per stile narrativo, entrambi gli spettacoli si sviluppano con l’eco della storia dell’America Latina sullo sfondo: la dura e violenta genealogia della stirpe umana di “El Dorado”, che trova un pretesto allegorico-narrativo nella figura del conquistatore Lope de Aguirre, e il drammatico racconto di Sandokan, venditore ambulante sui mezzi pubblici di Santiago nel testo di Larrain.
Scrive lo scrittore argentino Abel Posse, per introdurre l’arduo compito che la critica letteraria latinoamericana deve oggi agire sulle “cronaca ufficiale delle Indie”: “Es evidente que la historia se reescribe, y no para negar lo que ya ha sido escrito, sino para completarlo […]; los escritores de América Latina hemos ayudado a dar una nueva visión, a hacer más aceptable lo contado, porque hemos fraguado imaginativamente la crónica, pero sobre todo hemos releído para reescribirla”.
Restituire dignità e legittimità alla narrazione dei vinti, delegittimare la Storia Ufficiale, riesumare il non detto, il taciuto, smascherare le ‘damnatio memoriae’ operate dai poteri politici e dall’egemonia culturale.
E’ infatti al romanzo “Daimon” di Abel Posse che s’ispira Ene-Liis Semper, regista di “El Dorado” e fondatrice, con Tiit Ojaoo, della compagnia Theatre No99.
“Daimon”, pubblicato nel 1978 e primo romanzo della “Trilogìa del Descubrimiento”, analogamente a ciò che avviene in “Aguirre, furore di Dio”, opera cinematografica della coppia Herzog–Kinski, rilegge il personaggio storico di Lope de Aguirre come simbolo di quell’istinto degenerato all’appropriazione che conduce alla follia sterminatrice e all’autocombustione.
Lope de Aguirre si reincarna così nei dittatori americani fino al XX secolo, rivelando in Abel Posse una visione ciclica e disperata del tempo.
La ciclicità è anche l’elemento fondamentale della restituzione scenica di questa “nueva novela historica” (come si definisce la corrente distopica cui appartiene la narrativa dell’autore argentino) messa in atto da Theatre No99, compagnia fondata nel 2009 e premiata nel 2015 alla Quadriennale di Praga.
Su un palco circolare in costante movimento, una comunità di reietti celebra una messa funebre alla vita. Un Dio/demone dalla figura ingombrante è al centro della scena, sdraiato su una tomba dalle date errate: risorge dagli inferi e risveglia personaggi gobbi, deformi, dagli abiti cenciosi, terrificanti e clowneschi. Un’estetica che attraversa la corrente steampunk, l’immaginario cyborg dei romanzi di fantascienza, la degenerazione dei “freaks” di Diane Arbus. E’ il Paradiso Perduto di Milton, laddove un’Eva-bambola-rotta, dagli occhi sgranati nel vuoto e la bocca tenuta aperta da un dilatatore di plastica quasi fino a squarciarsi, ride di una risata isterica e acuta, e afferra una mela: il peccato capitale è compiuto, la proprietà privata è nata.
Da quest’atto si genereranno solo violenze che, riprodotte nella reiterazione mimata di gesti e aggressioni fisiche e attraverso una cacofonia onomatopeica di grugniti, sibili e urla (inesistente la parola), si passeranno il testimone della Storia: Theatre No99 (in scena Marika Vaarik, Helena Pruuli, Rea Lest, Rasmus Kaljujarv, Ragnar Uustal, Simeoni Sundja, Joirgen Liik) riproduce le razzie, lo sterminio dei nativi, gli stupri (la colonizzazione del corpo della donna), le atrocità dei conquistadores e del cattolicesimo di regime.
Ma è la violenza ancestrale dell’uomo ad emergere in questa ciclicità temporale senza speranza, in questa celebrazione del fallimento dell’umanità. “El Dorado” è una prova attoriale estrema nella quale la compagnia estone riesce alla perfezione, senza cadute di pathos e senza interruzioni di ritmi e tensioni. Uno spettacolo duro, che mette alla prova i più e induce ai conati, che genera asfissia. Quell’asfissia necessaria che, ripreso il respiro, restituisce senso profondo all’inalamento dell’aria.
La stessa provocazione avviene in “Acceso”, monologo interpretato da Roberto Farìas sul testo di Pablo Larrain, cineasta pluripremiato e di cui in questi giorni è nelle sale il film “Neruda”.
Sandokan è un venditore ambulante sui mezzi pubblici di Santiago che, a stretto contatto con il pubblico e passando attraverso le file di sedie della platea gremita della sala del Teatro Lac, espone la sua mercanzia di cianfrusaglie.
Tra un istrionico bandire e l’altro, Santiago, sudato e con una bottiglia di vino in mano, s’inserisce nelle fessure della memoria e dei racconti d’infanzia lasciando emergere lentamente, in un climax di svelamenti e confessioni, gli abusi sessuali subiti da ragazzino in una scuola cattolica, ma soprattutto l’assenza di una giustizia di Stato.
In “Acceso” (l’accesso alla vita, al cibo, al tutto divenuto merce e dunque inaccessibile se non attraverso il denaro), l’accettazione dell’abuso sessuale e l’apologia illusoria che il protagonista fa della pedofilia negli ambienti ecclesiatici si trasformano in un’alternativa all’inesistenza del welfare e dunque in una doppia condanna alla Chiesa e allo Stato.
Sandokan racconta l’uso di sostanze, la vita di strada di un gruppo di ragazzi che finiscono per prostituirsi in cambio di una protezione che non va molto al di là una pizza calda e una bibita fresca per svoltare le giornate. E’ la vita dei barrios periferici delle metropoli cilene (e non solo), da uno dei quali arriva anche Roberto Farìas, che commuove, paralizza, mette in difficoltà emotiva il pubblico con racconti espliciti e crudi.
Se “El Dorado: The Clowns’ Raid of Destruction” è narrazione allegoria del ciclo di violenza che l’uomo (e “La Conquista” è certo stato un momento apice di crudeltà storica) perpetra su sé stesso amaramente, “Acceso” ne è la manifestazione contingente, cronachistica, fattuale, contemporanea, concreta. “E’ in queste riflessioni – prosegue Abel Posse – che interviene l’analisi delle nostre radici, ed è precisamente la radice della conquista spagnola che ci porta ad una versione quasi fascista del potere”.
Sono le riflessioni che emergono dal teatro che il Fit sostiene, che apprezziamo e che speriamo nuovamente di ritrovare l’anno prossimo.