Tempête! Irina Brook e lo stupore per le piccole cose

La tempesta di Irina Brook
La tempesta di Irina Brook
La tempesta di Irina Brook (photo: Forster)
Durante la nostra prima giornata spoletina abbiamo potuto visitare, grazie ai tour organizzati dall’associazione e20umbria, gli spazi dei due principali teatri all’italiana di Spoleto: il raccolto e caloroso scrigno del Teatro Caio Melisso – Spazio Carla Fendi, in piena piazza Duomo, e – specularmente – l’ampiezza ambiziosa del Teatro Nuovo (che conta 800 posti), oggi intitolato al librettista e fondatore del Festival dei Due Mondi Gian Carlo Menotti. I due teatri ospitano, durante l’inverno, le stagioni di prosa, di opera e diversi incontri o dibattiti. 
Nei giorni del festival, però, vale la pena di lasciarsi cullare dalle geometrie curvilinee della città e andare in cerca anche degli spazi meno canonici, quelli in cui i gesti teatrali risuonano fra pareti e colonne non pensate appositamente per essi: se la combinazione è riuscita, ne nascono energie e atmosfere che si appropriano del luogo per pochi giorni, in una fragile e irripetibile simbiosi, l'”hic et nunc” su cui si fonda il teatro e che spesso lo rende preziosamente inenarrabile. 
Qualcosa del genere accade nell’ex chiesa di San Simone, nelle vicinanze della rocca albornoziana, sulla sommità di Spoleto: risalente alla metà del XIII secolo, il complesso di San Simone fu devastato nel 1863, quando chiesa e annesso convento furono sconsacrati e convertiti in caserma. Oggi degli affreschi su volte e pareti rimangono soltanto sfocatissime macchie di colore riemerse dall’ottocentesca intonacatura bianca, che in alcuni punti è a sua volta scrostata; sulle mura le puntellature rimangono in vista come cicatrici di una vita dimenticata, mentre in alto una copertura moderna copre lo spazio di una cupola che non c’è. Una fatiscenza quanto mai adatta agli illusionismi shakespeariani.

Stavolta Irina Brook e il suo Dream Theatre ci accolgono infatti con “Tempête!”, secondo dei tre capitoli della “Trilogie des iles”, che sarà in scena ancora il 10, 11 e 13 luglio. 
Come già nell'”Ile des esclaves“, gli spettatori percorrono la navata centrale lasciandosi ai lati delle microscene, come incastonate in nicchie invisibili, che evocano gli altri due spettacoli della trilogia. Superata una piccola tenda circense ci si siede in platea: a volume soffuso il rumore di onde e gabbiani, davanti a noi il pavimento del transetto di San Simone è completamente coperto di sabbia bianca; al centro della scena una farragine di oggetti da cucina, da pentole a moke a griglie di più dimensioni, risorse sceniche che saranno sfruttate con verve davvero poliedrica nei lazzi degli attori. 
A colpire fin da subito è infatti l’intesa corale e l’entusiasmo individuale dei cinque interpreti, Hovnatan Avedikian (Caliban), Renato Giuliani (Prospero, Stefano), Scott Koehler (Ariel), Jeremias Nussbaum (Ferdinand, Trinculo) e Ysmahane Yaquini (Miranda), che con mezzi semplici e davvero brookiani lasciano che sia lo stupore, la sorpresa per un oggetto portato oltre le sue potenzialità, a guidare il pubblico all’interno della drammaturgia. 
Srotolare un foglio d’alluminio da cucina può bastare ad evocare i lampi della tempesta evocata da Prospero sulla nave di Alonso, che in questa riscrittura del testo si unisce alla figura shakespeariana di Antonio, diventando egli stesso fratello di Prospero. Così Ferdinando, grazie alla suggestione dei suoi «capelli ritti come stecchi», può avere il corpo di un porro, le cui foglie piegate diventano, con semplicità magica, braccia strette attorno alla vita. O ancora, il racconto dell’antefatto, dell’inganno ordito da Alonso ai danni del fratello, è affidato all’arte burattinaia, sfruttando il fondo della scenografia a mo’ di teatrino. 
La riscrittura parodica della Brook trasforma i litigi dinastici di Prospero e Alonso nella contesa per il possesso di una catena di ristoranti, che il primo si è fatto sfilare dal secondo mentre era «distratto da studi esoterici». 
Miranda si innamora di un Ferdinando che sembra ispirato, complici gli occhialini e la mise bianca, all’inettitudine del Woody Allen dei tempi migliori. La prova d’amore di Fernando è una chiara trasposizione delle prove culinarie sempre più inflazionate in televisione. Strumento della parodia è anche la scelta del plurilinguismo: inglese, italiano, francese e dialetto napoletano si scambiano a ritmo veloce i ruoli. E poi i raffinati paradossi letterari, a sottolineare l’alterità e il distacco ironico dal testo originale: Miranda ruba a Shakespeare il celebre sonetto 18; Ferdinando cita l’ottocentesco Lord Byron. 
I virtuosismi scenici e lo spettacolo sono tuttavia quasi sempre al servizio del teatro, e non viceversa (su questo bipolo ha scritto con brillantezza Claudio Morganti, nel suo “Serissimo metodo Morgantjeff”): questa “Tempête!” sembra davvero animata da uno stupore sincero per le piccole cose, come quando il mulinello della forchetta di Prospero negli spaghetti serviti da Fernando è amplificato da Ariel col microfono. 
Apparizioni e sparizioni, collegamenti imprevisti che vivificano le possibilità della storia e preservano dalla sclerotizzazione le relazioni umane, sempre sospese sulla celeberrima sostanza dei sogni: ma spezzare le magie significa per Prospero imparare anche la maturità della rinuncia, e prima della solitudine finale (comunque animata dalla fedeltà di Calibano) c’è il tempo per suggerire l’attualità, invocando simbolicamente un passaggio di consegne generazionale, rappresentato qui dalla frusta dello chef lasciata al genero, prima del ritorno a Napoli.
In un momento di silenzio, da una delle fenditure alla sommità delle pareti di San Simone arriva il tubare di un piccione, annidato chissà in che angolo di questi spazi da cui il sacro si è ritratto, prima di farvi ritorno nelle sue vesti teatrali. E sembra quasi, il verso buffo del pennuto, l’involontario compimento di un’estetica ludica, che allo sguardo dello spettatore cerca di lasciare, prima d’ogni altra cosa, la gioia libera dell’imprevisto. 
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