Il nostro passaggio all’edizione 2016 del Terni Festival è stato inaugurato, domenica scorsa, dalle note di un Bach particolare, quello che ci porge Marino Formenti, chiuso per otto giorni nello spazio di tre ambienti affacciati sul piano stradale di via Angeloni, con l’unica compagnia di un pianoforte.
La piano-performance “Nowhere” è proprio questo: un prolungato periodo di condivisione quotidiana dell’arte musicale e con l’arte musicale. Condivisione per la città (le note del piano ci guidano all’esatto luogo dell’evento meglio di qualsiasi mappa), per i passanti (gli ambienti hanno due ampie vetrine sulla strada) e per chi decide di entrare e rimanere, ogni giorno, dalle 10 alle 23, accomodato su cuscini e materassi attorno al pianoforte sempre vivo, o anche più distanti, in angoli in cui si è invisibili, per tutto il tempo che si vuole.
Al muro, scritta a mano, la lista dei brani che saranno eseguiti in quel giorno.
Abbiamo detto che Formenti “porge” al pubblico questa performance, ma il verbo non è esatto.
Marino Formenti, nel suo (ossimoro) pubblico isolamento – qualcosa che ricorda gli stiliti più che gli eremiti delle grotte – non porge le note come si farebbe in un concerto, la cui durata limitata non meno che la disposizione nello spazio impongono quel gesto del dare, del veicolare con una qualità comunque imposta, “violenta” del suono. E da cui deriva quell’intimo lavorio del lustrare a specchio l’emissione e la ‘facies’ del sé esecutore verso il pubblico, di produrre sempre, momento per momento, un messaggio per esso.
Qui, invece, la natura quotidiana, personale, prolungata fa sì che il suono e l’esecuzione, durante “Nowhere”, siano veramente sé stessi, in una logica non comunicativa ma contemplativa. Formenti “suona” nel senso quasi che è egli stesso in sé a vibrare – i tempi moderati, la scelta dei brani tutt’altro che muscolare, per ragioni anche di ovvia economia –, in una rimodulazione per gran parte inaudita del concetto di “musica da camera”. Le tre camere (appunto) di via Angeloni sono foderate di musica; essa è così parte dell’ambiente da strutturarlo: quell’ambiente entra davvero progressivamente nell’ascoltatore che passa, guarda rallentando, o resta nella misura in cui predispone la sua posizione nello spazio e l’apertura a un tempo altro di riflessione e silenzio. Essa in qualche modo “fa” l’ascoltatore.
Questo rapporto da ritrovare tra ambiente e uomo, in cui l’uomo non si illuda di avere il controllo sulla natura, è precisamente il tema di “Anthropocene”, titolo di questa edizione del Terni Festival, che prosegue fino al 25 settembre.
La direttrice artistica Linda Di Pietro insieme a Leonardo Delogu l’hanno espresso con un’idea che più tangibile non si sarebbe potuto, la call internazionale per la costruzione di cinque case sui tigli del parco in cui ha sede il CAOS, Centro Arti Opificio Siri, cuore e cervello del festival.
In ogni casa, scelta da una giuria in cui figura tra gli altri il sonoro nome di Stefano Boeri, vive un artista in residenza creativa per dieci giorni (uno è lo stesso Delogu).
La città, dunque, simboleggiata da quella laterale ma pulsante via Angeloni, e studiata tra gli altri da Salvo Lombardo (che avevamo già visto a Roma) con il suo impeccabile “Casual Bystanders”, incentrato sulla registrazione di quegli interstizi del movimento che costituiscono la grande massa trascurata ma fondante del nostro essere corpo in pubblico.
Il percorso parallelo presentato a Terni è “B-side”, realizzato in coppia con Isabella Gaffè, sorta di scarni ritagli in forma di istallazione dell’opera maggiore: un trittico di documenti visivi e sonori che mostra quel processo di archiviazione di gesti qualsiasi di passanti occasionali nello spazio pubblico.
La città, quindi, “spazio artificiale di esposizione al rischio”, insieme alla foresta (il luogo della ricerca e della sperimentazione, con le cinque case sui tigli nel parco e la mostra al CAOS di tutti i progetti ritenuti ammissibili) e poi il luogo terzo: il teatro come «buio confortevole, spazio privilegiato in cui ascoltare il cambiamento», secondo le parole della direzione artistica.
E se de “La vita ferma” di Lucia Calamaro, lavoro in tre atti impegnativo e vero centro della giornata di festival, si era già parlato su Klp in occasione del festival Inequilibrio, è da citare la chiusura della giornata con “Sweat baby sweat” di Jan Martens con Kimmi Ligtvoet e Steven Michel, dalla Biennale Danza 2014.
I due performer/danzatori si avvinghiano per 65 minuti l’uno all’altra: si arrampicano, si tendono in equilibri diversi, puntellandosi sul corpo altrui, facendosi sostegno solo in questo muoversi addosso reciproco, e contorcendosi in costruzioni lentissime nello svolgimento, arroventate dal tema dello sforzo potenziale, mai sfogato se non in momenti di inquieta stasi, della tensione quasi immobile ma segretamente lancinante.
Un lavoro la cui gran parte è sommersa, muscoli e cuore, e che intride poco per volta i due corpi di stille e poi rivoli abbondanti di sudore, rendendo gli equilibri sempre più ardui, e i lenti movimenti sempre più avidi di forza e resistenza, suscitando più e più frequenti fremiti, brulichii, scatenando accenni di spasmi sottopelle, inflessibilmente tenuti a bada da un controllo che ha dell’imperativo e dell’orientale insieme.
Sul fondale, intanto, si legge “And as long as you are here, I am too”, e poi uno scorrere di versi sul genere del karaoke, in accordo e poi disaccordo con quelli dell’inesauribile “Willie Deadwilder” di Cat Power. Finché i corpi si slacceranno, e dopo un palpitante addio si separeranno per sempre nella morte, strisciando come sottoterra, ciascuno verso la propria interminata solitudine.
Un lavoro sulla fatica, sulla tenacia e sul dolore dell’amarsi (un Amore da lettera maiuscola, con una decisa inclinazione al viscerale), affatto disinteressato al quotidiano, e prettamente nordico in quella capacità di fondere a una glaciale assolutezza una monoliticità ossessiva e a tratti perversa, in un risultato non esente da momenti di consolante poesia, di gratuità nella ripetizione, e persino di involontaria comicità, ma fornito di una invidiabile chiarezza nei suoi intenti comunicativi.
Il Terni Festival prosegue da oggi nel suo ultimo week-end con molte presenze straniere. Tra i nomi, fra gli altri, Lotte van den Berg e il suo invito al pubblico al confronto in “Parliament of things”, presente anche come supporto alla regia del performer circense belga Danny Ronaldo, in scena da stasera a domenica con “Fidelis Fortibus”; e poi Trickster-p, l’argentino Fernando Rubio, Florentina Holzinger e Vincent Riebeek.
Per poi chiudere, la sera del 25, tornando all’Italia con “Purgatorio”, nuovo progetto di Babilonia Teatri e Zero Favole che parte da un assunto ben preciso: la convinzione che il teatro, oggi, debba occuparsi prima delle persone che di sé stesso.