“Terzo Teatro” e dintorni 1. I Vecchi Giovani

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Teatro Tascabile di Bergamo
Teatro Tascabile di Bergamo

Non è il teatro che è necessario, ma assolutamente qualcos’altro.
Superare le frontiere tra me e te: arrivare ad incontrarti, per non perderci più tra la folla, né tra le parole, né tra le dichiarazioni, né tra le idee graziosamente precisate.
(Jerzy Grotowski)

Una stella guida: l’Odin Teatret. L’Italia degli attentati terroristici, della tensione sociale, delle rivoluzioni, delle Brigate Rosse. Tra il 1976 e il 1979 nasceva una generazione teatrale, formata da gruppi di giovanissimi, che fecondò in maniera del tutto innovativa il teatro italiano, e non solo, fino a quel momento imperante. Oggi alcuni di questi vecchi eternamente giovani ci circondano, a volte immersi nelle sabbie mobili di un passato che immobile li fa paradossalmente sprofondare, a volte grandi ricercatori e perenni innovatori, tenaci, presenti, ostinati, resistono.

Questi vecchi giovani, che sono i padri di tutti i gruppi teatrali di nuova generazione, hanno spianato una strada, ma allo stesso tempo hanno fondato muri istituzionali difficili da scavalcare.  Per nominarne alcuni: Roberto Bacci e il Teatro di Pontedera; il Teatro Potlach; il Teatro Tascabile di Bergamo; Gabriele Vacis; poi, in una maniera autonoma ma sempre presente, il Teatro Nucleo; infine, sul finire degli anni ’70 e della generazione anni ’80, Socìetas Raffaello Sanzio; il Teatro della Valdoca; l’Abraxa Teatro; Teatro Ridotto; Cada Die; Teatro Due Mondi; Carte Bianche e la formazione derivante dal Carrozzone, quella dei Magazzini Criminali.
Una caratteristica tra tutte accomuna i gruppi che, a tutt’oggi, appaiono quasi completamente diversi dai dettami terzoteatristi: la forma stessa di gruppo, cioè comunità di lavoro, che non si riunisce per la singola produzione spettacolare, ma porta avanti una ricerca in comune, caratterizzata spesso da un processo di autopedagogia, anche se molti di loro possiedono un sapere artistico maggiore rispetto ai coetanei in avanscoperta del decennio precedente.
Una generazione teatrale e non un teatro, formata non solo dagli artisti, ma da ricercatori, studiosi, giornalisti.

Dal 1976 si sviluppò quel fenomeno che Mirella Schino, studiosa e docente di Storia del Teatro, definisce “Incontri di Teatro di Gruppo”. Proprio in questi incontri si farà evidente la presenza forte, nel panorama italiano, non solo della moltitudine di gruppi di giovanissimi attori provenienti da ogni parte d’Italia, ma anche quella di gruppi teatrali sudamericani, per motivi storici e politici, soprattutto argentini, come la Comuna Baires, “incarnazione cupa di estremismi e malanni che il teatro di gruppo italiano in genere non sofferse” come scrive Giorgio Morale.

Tavola dei maestri
Tavola dei Maestri (photo: teatrotascabile.org)

Precedentemente, nel 1974, in Italia cominciarono ad operare e scoprire la propria reciproca esistenza molti gruppi teatrali. Questo, secondo Mirella Schino,  avvenne a seguito della Biennale di Venezia del settembre ‘72, alla quale partecipò l’Odin Teatret presentando “Min Far Hus”. I gruppi italiani scelsero così come maestro Eugenio Barba, e l’Odin Teatret come guida, l’esempio di un teatro non ufficiale, contro le convenzioni del passato, un teatro-laboratorio in cui si potessero analizzare i grandi conflitti dell’uomo e della società, un teatro in cui l’attore non fosse diviso dallo spettatore. Lo stesso Barba organizzò il Primo Incontro Internazionale del Teatro di Gruppo, a Belgrado nell’ambito del Théâtre des Nations, nel settembre del ‘76. In questa occasione il regista scrisse il “manifesto” in cui comparve per la prima volta il concetto di “terzo teatro”. Un testo che divenne presto famoso e sarà più volte tradotto e ripubblicato.
Un evento che si ricollegò direttamente ai principi evidenziati dal festival di Belgrado, ma in questo caso pienamente italiano, fu il Primo Convegno Nazionale dei Teatri di Base organizzato a Casciana Terme nel marzo del ‘77.

Per dirigerci verso l’origine, il concetto di Terzo Teatro rappresentò il risultato di una serie di “negazioni”, le quali permisero una definizione del nuovo fenomeno teatrale dei gruppi. Non sembravano adeguarsi alla cultura teatrale: né al cosiddetto teatro tradizionale, né a quello d’avanguardia. Un teatro che viveva ostinatamente ai margini, spesso anche fisicamente – nelle periferie o fuori dalle grandi capitali di cultura -, un teatro di persone che in molti casi non erano passate per scuole tradizionali di formazione, e per anni non vennero riconosciuti neanche come professionisti. Eppure non erano dilettanti. Erano i professionisti di una “resistenza teatrale”.
Il Terzo Teatro, spesso nato da esigenze extra-artistiche, rafforzava la concezione del teatro come ponte, come dialogo scaturito dal momento di incontro tra le energie degli attori e quelle degli spettatori. E così il teatro divenne, in quegli anni, un valido strumento di rivolta, di lotta politica, di rinascita culturale. La caratteristica dei gruppi teatrali si individuava in questa tensione, in questo atteggiamento etico che si rivolgeva non solo alla professione artistica, ma alla totalità della vita quotidiana dell’essere umano, al bisogno di cambiare innanzitutto se stessi, con l’impulso a viaggiare lontano dai territori in cui viveva normalmente il teatro.
Il gruppo teatrale era efficace in quanto gruppo, prima ancora che come teatro. Talvolta si trasformò in “comuna” e divenne l’alternativa a un ambiente sociale inaccettabile, spesso anche alla famiglia. Formati da ragazzi spesso giovanissimi, infransero senza remore né dubbi tutte le regole che tutt’oggi  tengono in piedi l’imprenditoria teatrale e l’industria culturale. In poche parole rifiutarono il “mercato”. Si liberarono dell’asservimento ad un pubblico.
Le nuove realtà laboratoriali non si ponevano come priorità gli spettatori. Sapevano di essere realtà marginali e di rivolgersi dunque a una “élite”, non rappresentata da una classe economicamente privilegiata, ma semplicemente da uno spettatore che “sceglieva” quel tipo di esperienza, per motivi culturali, generazionali, o per affinità di vario genere. Questa impostazione di partenza poneva l’accento sulla costante ricerca, da parte dei giovani teatri, di un evento che fosse una “festa”, in cui si esaltasse la partecipazione collettiva e il momento di incontro tra persone, in cui lo spettacolo potesse irrompere nella “vita quotidiana”, prendendo possesso dello spazio e travolgendo la realtà.

Come anticipato, ancora oggi alcuni di questi “vecchi eternamente giovani” ci circondano, tenaci, ostinati. Molti si sono trasformati, adattandosi al nuovo contesto italiano e mondiale, come la Socìetas Raffaello Sanzio o il Teatro Valdoca, sempre presenti con nuove produzioni sulla scena nazionale, generatori e genitori di “figli” che evolvono, combattendo contro una realtà culturale annientata, continuando a spargere i propri semi.

Altri gruppi appaiono sterili, non generano figli, ma rimangono aggrappati al passato, un passato che, come un macigno, li sta lentamente facendo scomparire, come ad esempio il gruppo Argilla Teatri di Vincenzo Cozzi, oppure sprofondare nell’oblio, incastrati spesso nella formula di “teatro di strada”, come l’Abraxa Teatro di Roma che, nel suo essere comunque costantemente presente nelle diverse realtà pedagogiche istituzionali e riconosciuto a livello nazionale come gruppo di ricerca e sperimentazione, da oltre dieci anni ha una proposta artistica ingessata a causa, ma non solo, dalle difficoltà economiche imposte dal regno dei rarefatti contributi statali, che costringe alla “fame creativa” molti gruppi storici. Tanto da proporre gli stessi spettacoli musico-teatrali su trampoli (“La Festa dei Colori” e “Sogni in piazza”), salvo rarissime eccezioni di teatro di sala (“Il Cantastorie delle Celebrità”, “La giocata dei fantocci” o il più recente “L’Ultima notte”). Fermo, immobile, ripropone il se stesso che non c’è più, come un anziano che rimpiange i bei vecchi tempi non vedendo più molto futuro davanti a sé.

Un esempio significativo, quello di Abraxa, che è stato, sul finire degli anni ’80, il creatore del Teatro Urbano, fondando poco dopo l’Università del Teatro Urbano “Fabrizio Cruciani”. Un genere teatrale unico, all’epoca, che prevedeva incursioni teatrali in ambiti cittadini, nelle metropolitane, nelle strade, ai semafori. Un linguaggio teatrale che tuttavia, negli ultimi anni, raramente appare sotto la firma Abraxa, e quando lo fa solitamente è in concomitanza con il Festival del Teatro Urbano organizzato da 16 anni dalla compagnia stessa. Al di fuori di questo contesto protetto, quasi privato, il teatro urbano di Abraxa è stato ingoiato – senza riuscire a crescere realmente con forza – dai vorticosi abissi della folla teatrale, dei circensi e degli artisti di strada che, a loro modo, hanno reso l’intervento urbano un’arte in svendita, ma potente per le immagini, le forme e le tecniche.
Abaxa Teatro In questa realtà artistica variegata, che corre in avanti verso un futuro sempre più incerto ma vivo, l’Abraxa, ferma nel suo nido apparente, resiste con le unghie e con i denti, accompagnando proprio in questi giorni l’uscita ufficiale del libro “L’Avventura del Teatro Urbano. Ricerca e sperimentazione di Abraxa Teatro” a cura di Clelia Falletti, docente alla Sapienza di Roma (ed. Sette Città).
Un volume ricco di interventi di teatranti, studiosi e ricercatori del calibro di Ferdinando Taviani, Luciano Mariti, Stefano Geraci, Franco Ruffini, Julia Varley… Tra tutti emergono le testimonianze di Fabrizio Cruciani e la lettera scritta da Eugenio Barba in occasione del ventennale della compagnia nel 2001. Tanti sguardi e tanti punti di vista su, come la definisce Barba, quell’“isola di terra ferma, dell’angolo dimenticato” nel verde di Villa Flora, tra i palazzi ma lontano dai rumori nel quartiere romano tra Portuense e Monteverde, in cui Abraxa Teatro è nato, cresciuto e tuttora risiede.
Ma lo sguardo è fisso dietro alle proprie spalle. Un passato brillante, tanto da accecare il presente. Un passato che urla con voce potente rispetto al silenzioso oggi: un presente in cui ciò che era Terzo Teatro e ricerca rimane ed è, troppo spesso, solo vecchio terzo teatro.

— fine prima parte —

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