The Last Witch. Rona Munro e Dominic Hill ci portano fra le ultime streghe di Scozia

The last witch
The last witch
The last witch (photo: eif.co.uk)

Chi non ha mai sentito parlare della Scozia come del rifugio di maghi e stregoni? Castelli abitati dai fantasmi, fenomeni atmosferici evocati dalla sola imposizione delle mani, formule dalla grammatica impronunciabile che permettevano di scambiare quattro chiacchiere col Diavolo in persona. Corvi che ancora volteggiano su antiche case padronali come sinistro monito per colpe commesse centinaia di anni fa.
Così come la Spagna (e di conseguenza tutte le colonie) porta con sé la tradizione gitana, quella dei presagi annidati nei fondi del caffè e nelle ossa dei galli, le punte Nord dell’Europa vanno ancora salmodiando gli incantesimi delle streghe, da Macbeth al Sogno di una notte di mezza estate, dall’epopea di Beowulf alla saga di King Arthur. E chi godesse dell’immenso piacere di farsi un giro lassù, nelle Highlands, sentirebbe lontana ma presente la potenza della suggestione e l’eco di incantesimi celtici. E forse non confesserebbe mai di aver davvero sentito, qualche notte prima, la proverbiale lingua di gelo attraversare le mura cave di quel castello su Kyle of Lochalsh o Loch Lomond.

Perché indugiamo con tale gusto a fare della narrativa? Perché richiamiamo qui atmosfere ben precise? Perché è con questi presupposti che si apre la scena di “The Last Witch”. Ancora una volta sulle tracce di un fil rouge marcato e virtuoso, il Festival di Edimburgo 2009 ha commissionato alla scrittrice scozzese Rona Munro un piccolo affresco-riflessione sul mitico personaggio di Janet Horne. Una sorta di William Wallace al femminile, segnata dalla storia come “ultima donna in Scozia condannata a morte per stregoneria”.

Rona Munro è una delle drammaturghe di punta della scena scozzese, membro della commissione creativa dell’Edinburgh International Festival presso l’Istituto per Alti Studi Umanistici all’Università di Edimburgo. Autrice di circa venti tra pièce, adattamenti e versioni radiofoniche, ha vinto nel 1991 il Susan Smith Blackburn Award.

È di nuovo il concetto di Illuminismo a tirare per la coda l’argomento. Stavolta la parabola descritta dal testo di Munro sembra suggerire l’avvento della ragione (la vicenda è ambientata nel 1727) come “lotta di classe” contro la superstizione. Interessante punto di vista, ché nei libri di storia ci è sempre accaduto di osservare il manifestarsi del “buon senso” e del metodo scientifico quasi solo attraverso esempi di aristocrazia e borghesia. Nessuno, in altre parole, ci aveva mai raccontato in che modo (e mietendo quali vittime) il fenomeno illuministico aveva coinvolto anche gli strati più umili della società, in certo modo plagiati dalla Nuova Era. Stiamo parlando di contadini, pastori, braccianti, in questo caso residenti nell’area di Dornoch (Scozia settentrionale), dove nel 1727, mentre a Londra si girava imparruccati e imbellettati, si compivano ancora riti sacrificali per ingraziarsi i favori della natura, ché non facesse piovere, ché mandasse fertilità.

Munro inquadra questa Scozia come fosse uno degli ultimi baluardi alzati contro il manifestarsi del Lume. All’interno di questa sorta di Dogville, di Manderlay, di villaggio amish, si parla una lingua rozza, si troncano parole, si ride sguaiatamente al racconto di una decina di pecore per infezione o dei corvi che mangiano gli occhi dei condannati alla gogna. Una realtà brutale, che Munro affronta con ironia, disegnando il personaggio di Janet Horne come un simpatico donnone verboso ed allegro.
Il dubbio che le sue minacce di raccolto infruttuoso, bestiame malato e carestia fossero solo chiacchiere s’insinua prima di tutto negli spettatori, mentre intorno a Janet il paese si chiude a morsa dando sempre più in fretta forma a quella che suonerà come una vendetta del borghese illuminato sul contadino rozzo. Della ragione sull’ignoranza. Dell’Illuminismo sui Secoli Bui. Lotta di classe, appunto.

C’è poi, trasversale, il rapporto tra Janet e la figlia Helen, tormentata dal sospetto di essere anch’ella in possesso di poteri paranormali. La morsa del giudizio si chiuderà però su Janet, accusata da tutta quella comunità che le era amica, quella che le veniva a chiedere favori perché in fondo la temeva davvero in contatto con il demonio. Quando Helen, dopo qualche vero e proprio incontro con il demonio, andrà a implorare le autorità di non uccidere la madre e confesserà invece se stessa come strega, sarà troppo tardi. La Janet simbolo di femminilità e perspicacia, improvvisamente mai così lontana dalla figura della strega, mente e si confessa adoratrice del Diavolo, salvando la vita alla figlia ma guadagnandosi il rogo come ultima strega di Scozia.

La messinscena di Dominic Hill gioca molto con le luci e con qualche facile trucchetto di audio e videoproiezione, lasciando quasi tutto lo spazio al testo e agli attori, che Hill fissa in quadri statici e decolorati. L’affresco di Munro è da un lato un processo alla mentalità retrograda e “di paese”, dall’altro va a lanciare il sasso di un Illuminismo inteso come superstizione delle superstizioni. Tanto che il racconto si chiude con un evento soprannaturale, che in qualche modo ci ristora: Helen, in esilio volontario, prega il Diavolo di punire gli assassini della madre, mandando uno stormo di corvi a beccare a morte l’ufficiale che l’aveva condannata. In barba all’Illuminismo, l’ultima strega è fuggita. E chissà che la sua discendenza non sia giunta fino a noi. Certo, quello spiffero gelido la scorsa notte al castello…


THE LAST WITCH

di Rona Munro
regia: Dominic Hill
produzione: The Edinburgh International Festival e Traverse Theatre
interpreti: Kathryn Howden, Hannah Donaldson, Andy Clark, Vicki Liddelle, George Anton, Ryan Fletcher, Neil McKinven
scene: Naomi Wilkinson
luci: Chris Davey
musiche: John Harris
video: Andrzej Goulding
durata: 1 h 45’
applausi del pubblico: 1’ 50’’

Visto a Edinburgh, Royal Lyceum Theatre, il 23 agosto 2009
Edinburgh International Festival 2009

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