Tra gli ospiti di Attraversamenti Multipli 24, Marta Olivieri, Francesca Cola, Francesca Penzo e Mariagiulia Serantoni
Le comunità e i luoghi non sono intercambiabili: un’opera vive del suo contesto ben oltre che nel concetto impalpabile di “scenario”, e questo vale soprattutto per quelle opere che scelgono di darsi in contesti non deputati, caratterizzati dall’apertura alla vita che passa. Così per Attraversamenti Multipli, il festival crossmediale romano delle arti performative (danza, teatro, performance dal vivo e digitali, circo, per tutte le età), la cui storia risiede nei diversi luoghi su cui è atterrato nei suoi ventiquattr’anni di vita.
Questa è una prima coordinata, il dove; la seconda è il chi. Pochi altri festival sono legati alla propria direzione artistica come Attraversamenti Multipli, o meglio: pochi altri artisti hanno espresso la propria idea non solo politica, ma esistenziale del fare spettacolo con mezzi così schiettamente curatoriali come Alessandra Ferraro e Pako Graziani (festival e compagnia sono raccontati da “I teatri di Margine Operativo” e “Attraversamenti Multipli 2001-2020”, rispettivamente a cura di Andrea Pocosgnich e degli stessi Ferraro/Graziani, entrambi stampati per i tipi di Editoria&Spettacolo).
Ma si parlava dei luoghi, dello scambio tra le vite sceniche che vivono per poche ore su di un suolo e quelle dei residenti che letteralmente abitano quegli spazi, che si trovano a fare i conti con una “occupazione” performativa; si parlava del peso di questa identità mista che ne discende e che definisce la performance. Ecco che da quando, l’anno scorso, il centro gravitazionale di Attraversamenti si è spostato da quello spiazzo segnato senza tregua né risparmio da passaggi, affacci, incidenti di sguardi e corpi come Largo Spartaco al Quadraro, per insediarsi nella cornice più protetta del Parco di Torre del Fiscale, anche gli attraversamenti che lo impegnano sono cambiati. Forse questo parziale distacco dal turbinio incontrollato della vita di quartiere risponde a un bisogno condiviso di un’epoca, di una generazione di prendere fiato dalla lotta, di posare i piedi su un campo, anziché sul solito asfalto. O forse si è rafforzata in quella generazione l’esigenza di donare una cura, un’intimità più protetta agli artisti e alle artiste convocati.
Luca Lòtano, che accoglie chi scrive nel cerchio della Redazione multilingue del progetto internazionale Le.Re.M, nel quale ci si interrogava sull’ultima perfomance in un misto di lingue e sguardi,
suggerisce a tal proposito ai suoi redattori l’immagine di un genitore che voglia trovare uno spazio adeguato per far recitare pubblicamente al figlio una poesia: l’immagine suona tenera, stimolante.
Sta di fatto che la scelta di confinarsi in un’area delimitata non è priva di fermenti, e comincia a esplodere, sia pure soltanto all’interno dei confini di quell’area, se è vero che le attività stanno occupando, nel corso della presente edizione, in lungo e in largo gli spazi dell’area verde: il percorso sonoro di Lacasadargilla su “Gli uccelli” di Du Maurier (abbiamo parlato qui della sua versione da palco) è disseminata nella geografia dello spazio, la nuova performance “Cosmorama” di Nicola Galli, che si è giovato di una residenza in questi spazi per cucirvi sopra il suo lavoro, vi si inoltra più profondamente, seguendo la direttrice sud; e quella di Claudia Catarzi “14.610” sperimenta un’area estranea ai tradizionali spazi deputati dei due palchi, al di qua e al di là dei resti dell’Acquedotto Felice, che taglia longitudinalmente l’area, e altrettanto nomadi (ma di un nomadismo fatto per piccole gambe) è “Pacifier” del Collettivo Flan, nella giornata dedicata al giovane pubblico – per limitarsi agli spettacoli che abbiamo incontrato.
Questo sia detto per i luoghi. Per le persone dei curatori, anche qui Ferraro e Graziani si ritagliano uno spazio per il loro progetto di “Un’altra Medea”, assegnato il ruolo unico dell’esule principessa dei Colchi in Corinto alla danzatrice e performer Lucia Cammalleri, in un secondo e più riuscito “movimento” rispetto a quello dello scorso anno, tratto anch’esso dalle “Voci” di Christa Wolf, rielaboratrici dalla fabula euripidea. E la loro proposta, tessuta attorno a un testo letterario forte, con strumenti rappresentativi tradizionali, risulta tutto sommato isolata all’interno della programmazione del festival, invece più provocatoria, turbolenta nelle richieste di posture interpretative, espansa. Lo spazio che vede Medea ripercorrere la propria fuga dalla Colchide, il sacrificio del fratello Apsirto, il dolore di Eete, e che ce la restituisce intenta a paragonare la barbarie e la nobiltà, a ridiscuterne i confini, è disegnato da luci evocative (gli archi romani possono fingersi mura corinzie), in una Tor Fiscale finalmente scesa nel buio, percorsa da una bava di vento fresco, che ci fa stringere appena nelle spalle.
L’azione si svolge in un’area che spontaneamente si disegna in un rettangolo di palco, ed è resa viva con una predominanza del testo, anche sottoposto all’elaborazione, alla trance di un’eco ottenuta con la voce registrata. Questo breve, incisivo lavoro, ulteriore tassello stagliato sulla prospettiva di un festival così eterodosso, torna a evidenziare la libertà della scelta dei programmatori, la capacità che mantengono di aprire uno sguardo ampio sul panorama delle arti performative, al di là delle proprie direzioni creative.
Ma a unire il doppio filo di spazi e curatela come atto di politica e d’arte, in modo più convincente, con la questione degli spazi della performance sono probabilmente i lavori di Marta Olivieri e di Francesca Penzo e Mariagiulia Serantoni del gruppo Micce, entrambi meritevoli di una disamina più approfondita, che qui raccontiamo brevemente.
“Metis” di Penzo e Serantoni è un lavoro in cui i due binari dell’intervista a donne residenti nel quartiere bolognese “a rischio” di Scalo-Malvasia e della performance fisica sull’erba del parco, in tenuta da apicoltrici, dovrebbero consentire la costruzione di uno spazio plurale – lo spazio che, simbolicamente, le performer disegnano distendendo il loro passaggio in segmenti – in cui la città, costruita per utenti in posizione dominante, possa essere aperta a minoranze o ad abitanti non conformi.
La metafora dell’alveare, di cui udiamo anche il ronzio, è riferibile a uno spazio condiviso: e quello delle api (o delle formiche) lo è per antonomasia, e non di rado è stato nei decenni scorsi preso a modello di sistema sociale; d’altra parte il ronzio e le maschere retate richiamano un senso di assedio, di imprevedibilità dell’attacco. In effetti la sicurezza personale nei quartieri più fragili è uno dei temi della performance, che include anche il pubblico presente attraverso la proposta di tre domande su post-it da incollare poi su una mappa, nel finale, come un terzo ulteriore binario di marcia, quello dell’interattività e dell’inclusione del pubblico nel lavorio tematico in scena.
Marta Olivieri si concentra in modo più radicale sulla questione dello spazio: il suo “Trespass_tales of the unexpected” si dà proprio come una configurazione della realtà a partire dalle sue abitatrici, dalle loro voci, quella della stessa Olivieri e quella di Camilla Guarino, performer impegnata da tempo nella pratica della audiodescrizione poetica della danza insieme a Giuseppe Comuniello, qui drammaturgo del suono.
La voce è evocazione della presenza, presenza presente o immaginata, o tirata dentro, a pescare tra i passanti del parco; la voce descrive corpi, atteggiamenti, abiti o posture chiedendoci di ricercarli attorno o di abbandonarci a immaginarli; la voce è anche invito a vivere lo spazio, diviso tra angoli di lettura, di ristoro, di riposo, persino di lavoro a maglia, non rinuncia alla sua funzione conativa. Vi è dunque contemporaneamente lo stimolo a cercare un modo in cui stare nello spazio e a mutarlo, insieme al punto di vista e una creazione dello spazio stesso, non solo attraverso props o altri materiali destinati magari al comfort dello spettatore, ma anche con la chiamata in causa, attraverso la loro nominazione, di enti e funzioni.
E se tutto parte come un’attesa (la voce è inizialmente fuori campo), fatta di indizi, in cui la curiosità dell’oggetto della descrizione si fa febbrile, poi la misteriosa presenza richiamata dalle parole si impersona in Loredana Canditone che si sovrappone – ma solo per un attimo, o parzialmente, senza fornirci la rassicurazione di aver esaurito la questione generativa delle apparizioni – alla descrizione.
La seconda parte, più mossa dalla presenza contemporanea delle tre performer, si fa accumulo di materiali eterogenei enumerati, oggetti o posture o storie (“Regionale 2456”, la storia della scomparsa di Amelia Earhart…), sia attraverso l’attività cinetica non lineare dei corpi, i cambi d’abito.
Questa duplicazione geometrica ma, appunto, non lineare, come scossa da improvvisi cortocircuiti e sfarfallamenti di una realtà non convenzionale, benché costruita attraverso elementi della nostra esperienza comune, potenzialmente infinita nella durata, proprio come un mondo artificiale, è insieme fredda e rapinosa. Da un lato pungola l’emersione di un significato, di una soluzione interpretativa, come quando ci si pone davanti a un’opera d’arte accampataci davanti senza preavviso; dall’altra si lascia vivere esattamente come una ulteriore superficie possibile, esplorabile, non immune da piccoli shock e ripensamenti.
I bambini sono invece stati i veri protagonisti della giornata del 27 giugno, con una programmazione dedicata, partendo da un laboratorio di eco-danza e pratiche del contemporaneo. Un laboratorio-racconto condotto dalla danzatrice e pedagoga Francesca Cola, in cui i partecipanti bambini, e non solo, hanno potuto conoscere la casa di Ruth, personaggio a metà tra umano e soprannaturale, che pone una grande domanda: come possiamo sopravvivere in un pianeta danneggiato? La domanda avvia un viaggio, un percorso tra rifugi segreti, luoghi dei sogni, rami, sassi e suoni. Un tracciato che porta dritto verso la performance di danza contemporanea e soundscape live “Ruth” della Cola. La performance è il frutto della residenza artistica “Eco Ritmi” organizzata da Margine Operativo, studiata per il luogo suggestivo del Parco di Torre Fiscale, sovrastato dall’imponente ed evocativo acquedotto romano. Gli elementi naturali sono i primi protagonisti della narrazione. Si immagina ancora l’acqua che scorre nell’acquedotto, che ci riporta a miti lontani, con gli uccelli cinguettanti, il vento sugli spettatori e le cicale a cantare. Tutto questo viene accentuato, e lo spettatore viene portato per mano, o per meglio dire per l’orecchio, dall’affascinante e coinvolgente soundscape live di Paola Lesina. Un gioco di suoni creati con sassi, plastica, carta e voce, che si mescolano perfettamente e si immergono nell’ambiente sonoro reale.
Il vociare dei bimbi che giocano nel parco, la musica vibrante, le biciclette che passano lontano e la voce della Lesina che fa rivivere antiche alchimie. Al centro dello spazio scenico un rifugio realizzato con rami e lenzuola bianche, dal quale sporgono oggetti sciamanici, ancestrali, ossa di animali, rami, sonagli realizzati con semi. Dopo un lasso di tempo in cui i bambini non staccano gli occhi curiosi dalla scena, emerge lentamente Ruth, spirito della natura ed essere puro. Arriva da un mondo sconosciuto e lontano e lentamente ci studia, ci osserva, ci annusa e ci coinvolge.
La sua danza appare primordiale, gli oggetti naturali sono amuleti per creare un contatto con gli umani che la circondano. Ruth predilige di gran lunga i bambini. E i bambini non temono questa creatura, lenta ed imponente, dal volto coperto. I bambini sorridono e accolgono questo suo ritmo lento. Fino a quando Ruth non svela il suo volto, si umanizza, e ci ricorda che la Natura che stiamo distruggendo siamo noi, e che i bambini la salveranno. Il suono viaggia da solo e le due performer lasciano che il pubblico le segua. Si allontanano verso la piccola collina dando le spalle al tramonto.
Lo spettacolo riflette sulla velocità che governa le nostre vite. Sulla necessità di lentezza e di ritorno ai ritmi ed i suoni della Natura. Soprattutto di come i bambini ne abbiano bisogno.
Riflessione sul tempo e sui sogni che, in una maniera completamente diversa ma altrettanto efficace, propongono gli abili artisti di circo contemporaneo del Collettivo Flaan in “Pacifer”, diretto da Leonardo Varriale, con Anton De Guglielmo, Alessio Paolelli, Alice Bellini, Flavio Bedini e le scene di Fabio Pecchioli. Una carovana che fa spostare il pubblico da un luogo all’altro del parco. Un viaggio in bilico tra passato e presente, tra immagini riflesse e realtà. L’arte circense è un grande specchio della realtà, della quotidianità che viviamo. Un giro perpetuo di azioni che si ripetono, un salire scale per poi ricaderne giù, metafora messa in scena grazie alle strutture a scalinata praticabili su ruote, oggetto simbolo della ciclicità del tempo e della ripetibilità delle azioni umane, che ricorda Escher e il surrealismo.
Ma l’arte, ancora una volta, ci dona lentezza, ci costringe al qui ed ora, a vivere il presente, l’evocazione di noi stessi proiettati verso un futuro altro attraverso la dolcezza della clownerie, l’esuberanza dell’acrobatica, il trepidare della giocoleria, la giocosità del beatbox.