Protagoniste Ida Marinelli, Elena Ghiaurov e Denise Brambillasca, in prima nazionale a Milano
Le tre età di una donna al cospetto di una vita che sfugge. Una riflessione sarcastica sull’esistenza, con un retrogusto agrodolce.
Ha più di trent’anni “Tre donne alte” (1991), testo dello scrittore newyorchese Edward Albee vincitore del Premio Pulitzer e del Lucille Lortel Awards nel 1994. Al centro, una donna A di 92 anni nella sua stanza da letto, al capolinea della propria vita. La accudisce una donna B 52enne. C’è anche una donna C, giovane avvocata di 26 anni, mandata a sistemare le finanze dell’anziana.
Tre personaggi femminili, tre caratteri in tenzone. La donna A è imperiosa e aspra; la donna B, è disincantata e sferzante; la donna C è puntigliosa e maldisposta, a tratti insolente.
In prima nazionale all’Elfo Puccini di Milano, il regista Ferdinando Bruni crea una messinscena senza orpelli né velleità. Ha il merito di sprigionare la forza acuminata del testo, di preservarne il brio e un monito sulla vita che penetra nelle nostre coscienze. Ma la capacità di Bruni è soprattutto di offrire un ritratto a tutto tondo dell’identità e della sagacia femminile. Scompone e ricompone incessantemente le figure in scena, rimarcando le peculiarità di ogni fase della vita adulta. Il risvolto scenico è la prova convincente delle attrici, individuale e d’ensemble.
I dialoghi sono serrati. Tre donne alte, magre. La fisicità modella la personalità assertiva delle protagoniste. Magistrale Ida Marinelli, ricca 92enne donna autocratica e orgogliosa. La giovane Denise Brambillasca ne regge il passo: sbarazzina, vivace, stigmatizza con una punta di fastidio le intemperanze dell’anziana. L’impeccabile Elena Ghiaurov è invece la 52enne che giostra, in una sorta di adattamento forzato, tra le defaillance della 92enne e le intransigenze della ragazza.
In elegante vestaglia l’anziana, truccata, ingioiellata, le unghie dipinte, manifesta il deterioramento del corpo e della memoria. Eppure mantiene uno spirito arguto e combattivo. Nelle sue parole s’intrecciano emozioni e ricordi in maniera confusa, con salti temporali che a tratti sembrano voragini.
La donna intermedia vive l’accudimento dell’anziana come un male necessario. Eppure manifesta affetto e comprensione. Non nasconde il proprio disagio. Non dissimula la propria stanchezza. Ma stempera la fatica con l’ironia. Avendo dietro di sé l’esperienza del tempo vissuto, guarda con indulgenza al tempo che le rimane, che prefigura non dissimile da quello della donna anziana.
La donna giovane è meno empatica. È irrequieta. Vive il presente come se fosse interminabile. Ha a sua volta dei ricordi, che non le fanno paura, come se fossero i prodromi di un avvenire spensierato.
Nella prima parte compassata, forse prevedibile, Albee si limita a consegnarci un ritratto senza reticenze né ipocrisie della vecchiaia. Potremmo definirlo una radiografia stereotipata su un’età deteriorata dall’incontinenza e dalla demenza. Affiorano i ricordi di una vita per niente idealizzata, in cui non mancano i tradimenti.
Nessuna retorica, nessun sentimentalismo. Un equilibrio di fondo edulcora il dolore e la malattia. La morte aleggia, ma dissolve in un orizzonte surreale.
Il secondo atto è quello del ribaltamento. Elena Rossi confeziona lo stesso abito lungo, bianco, angelicato, per le tre donne. La scenografia di Francesco Frongia (pesanti armadi arcaici, enorme candelabro classico) cade e ne rimangono i cocci. L’atmosfera si fa meno stantia. Sale il climax dei botta e risposta. La pièce si scompone, si frantuma come un guscio d’uovo.
L’enorme orologio rotondo senza lancette (citazione di Dalì e di Bergman), prima accantonato in un angolo della camera, ora campeggia in alto sul capezzale di una donna moribonda, ormai ridotta a manichino. Le tre donne sono diventate le varie età di una stessa persona incartocciate in una contemporaneità schizofrenica. Ogni coordinata spaziotemporale è saltata.
C’è anche l’occasione per un ritorno, quello del figlio (un silenziosissimo Ettore Ianniello), dopo un’assenza durata vent’anni. Nell’originale di Albee, il figlio è stato respinto dalla madre a causa della sua omosessualità; nella lettura di Bruni, mediata dalla traduzione di Masolino D’Amico, l’allontanamento tra i due riguarda le normali dialettiche familiari fatte di separazioni e riavvicinamenti.
Il tempo pare azzerarsi. La vita e la morte si guardano allo specchio. “Tre donne alte” mette a nudo le verità della nostra esistenza: come viviamo, come amiamo, come ci trasformiamo. La morte si consuma a piccole dosi: «Non ho più amici; la maggior parte di loro sono morti, e quelli che non sono morti stanno morendo, e quelli che non stanno morendo si sono allontanati o non li vedo più».
Tre sfaccettature della stessa vita imperiosa, vanitosa e fragile. Mentre la donna giovane proietta la propria felicità nel futuro, la matura la colloca a cinquant’anni, quando si può guardare indietro e avanti contemporaneamente. La donna anziana afferma invece che il momento più felice è quello in cui nessuno pretenderà più nulla da lei: «Questo è il momento più felice. Quando è tutto finito […] Quando possiamo fermarci».
La vecchiaia è sganciata dal fluire del tempo. La giovinezza è il più sublime degli inganni. Il tempo dei ricordi allunga ombre su un’esistenza i cui fotogrammi scorrono alla velocità della luce.
“Tre donne alte” è un lavoro necessario per chi non schiva i bilanci sulla propria vita. La pièce è un invito a sperare. A non demordere. A sforzarsi di capire: a guardare con distacco il nodo gordiano della morte, che può essere affrontata con classe ed eleganza.
In scena a Milano ancora stasera, 2 giugno.
TRE DONNE ALTE
di Edward Albee
traduzione Masolino D’Amico
regia Ferdinando Bruni
scene Francesco Frongia
costumi di Elena Rossi
con Ida Marinelli, Elena Ghiaurov, Denise Brambillasca, Ettore Ianniello
luci Michele Ceglia
suono Gianfranco Turco
produzione Teatro dell’Elfo
durata: 1h 50’ più intervallo
applausi del pubblico: 3’
Visto a Milano, Teatro Elfo Puccini, il 25 maggio 2022
Prima nazionale